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Nuovi CD di musica del XX e del XXI secolo

Giacomozzi

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Reputazione Forum

  1. Ciao, la chitarra della registrazione è una chitarra del giovane e bravissimo Francesco De Gregorio. Una chitarra ispirata a Torres, con fasce e fondo in cipresso. Quella della foto è invece una Pascual Viudes del 1925.
  2. Ovvero, un'ipotesi interpretativa che mi sono fatto sui suoi “caprichos goyeschi”. Una lettura attenta dell'opera in questione, prima ancora che uno studio vero e proprio, impone - all'interprete accorto - una riflessione sulla scrittura di Castelnuovo-Tedesco, per ciò che concerne il suo rapporto con la chitarra classica - strumento per cui, in questo caso, scrive. Se anche è evidente che i caprichos non si discostino prepotentemente dalla restante produzione del compositore, mi pare di intuire, in quest'opera in particolare, un'amplificazione e un'esaltazione di quelle che sono tutte le caratteristiche di MCT, per quello che riguarda la sua scrittura per chitarra. Al di là di semplici evidenze riguardanti la scrittura non propriamente idiomatica per lo strumento - in primo luogo per quello che riguarda la reale suonabilità di alcuni fraseggi, accordi o soluzioni impiegate in intere sezioni - si fa evidente la volontà, del compositore, di ottenere da uno strumento come la chitarra, una varietà di timbri, di espressioni e soprattutto dinamiche impossibili a qualsiasi chitarra, prima ancora che chitarrista. A mio avviso, queste scelte, non possono essere giustificate dalla banale evidenza che Castelnuovo-Tedesco non conoscesse, se non da ascoltatore, le possibilità della chitarra; né dal fatto che - in quel senso - il suo termine di paragone più vicino (al momento della scrittura) fosse uno strumento completamente diverso, (e opposto se si pensa alla natura intima della chitarra, che evidentemente Castelnuovo-Tedesco non ignorava) come il pianoforte. In questi giorni mi sono fatto un'idea che, a mio avviso, nobilita ed esalta l'intento del compositore, e lo esula da quello che per alcuni è una ricerca di possibilità che la chitarra non può ottenere: sono infatti ormai convinto che Castelnuovo-Tedesco, all'epoca della scrittura dell'op 195, fosse ben cosciente di quelle che avrebbero potuto essere le possibilità dinamiche della chitarra (dedicherà buona parte della sua attività di compositore alla chitarra, e ad un interprete che di certo non possiamo considerare privo di possibilità espressive): nel mantenere una così vasta tavolozza espressiva - e mi ripeto, soprattutto per ciò che riguarda la dinamica - io credo che abbia giocato un ruolo decisivo l'idea di chitarra, più volta espressa da Segovia, come strumento musicale evocatore di suoni orchestrali (non una chitarra imitatrice: la differenza è infatti sostanziale). Un'idea - quella di Segovia - che evidentemente affonda le radici, pur mutandone la resa nel tempo, in quella che fu la rivoluzione llobettiana della chitarra impressionista: con possibilità timbriche - date e dallo strumento utilizzato, e dalla mano destra, e dalle posizioni da ricercare per la mano sinistra - grandissime. In questo senso, pur non conoscendone alcune peculiarità, io credo che un compositore come Castelnuovo-Tedesco, ponendo l'interprete non tanto a fare i conti con delle reali richieste del compositore, ma con un'immaginario sonoro, evidentemente orchestrale, da rendere con efficacia, abbia capito in maniera profonda l'essenza e la natura intima della chitarra. Il musicista che voglia, riuscendoci, rendere vivi i contrasti, dovrà infatti - prima ancora che tentare tecnicamente tutte le varie possibilità concessegli dal suo virtuosismo - entrare nell'ottica onirica della chitarra (appunto sognata) del compositore fiorentino: immaginare suoni inauditi, nel tentativo di proporre non tanto il suono in sé, ma un'idea di suono, che ne evochi a sua volta un'altra. Una doppia lettura (e forse paradossale nell'esigenza di unire due mondi opposti) tanto cara a Goya, che nella resa di immagini oniriche, immaginifiche, si impone una lucida analisi (prima che una critica) di un'intera società. Come nel caso di una delle più note incisioni goyesche della raccolta: “El sueño de la razón produce monstruos”, dove l'ambivalenza del significato del termine sueño ci suggerisce che i mostri possono essere generati dal sonno della ragione, tanto quanto dal “sogno” della ragione: dove il sogno è inteso come limite estremo di un'utopica visione del mondo iper-razionale. Così mi pare di aver intuito essere anche la scrittura di Castelnuovo-Tedesco, nello specifico per quello che riguarda quest'opera, culmine del suo pensiero sulla chitarra, essa ci impone, partendo ovviamente da una lucida ed analitica lettura del testo, di entrare a contatto con il lato più fervido della nostra immaginazione. Con relative sorprese - come sempre accade in questi casi - per ciò che l'interprete scopre di sé.
  3. Come da oggetto, vendo chitarra del liutaio Mario Pabè, anno 1966. Modello da concerto. Per qualsiasi informazione, contattatemi.
  4. Sacrosanto. Ma forse sarebbe anche opportuno che i chitarristi accorti inizino a valutare e a dosare con più minuzia la loro partecipazione ai concorsi. I concorsi, sembrerà strano, vivono della partecipazioni di concorrenti che, iniziando drasticamente a mancare, farebbero riflettere non poco gli organizzatori. Anche il pianoforte, tornando al paragone con i pianisti, ha una miriade di concorsi/beffa come la chitarra stessa li ha. Una gara all'ultima nota nel vortice dell'interpretazione più arida, insulsa e insignificante che, puntualmente, delude i musicisti che vi partecipano: gli stessi concorsi chiamano a giudici vincitori passati che, secondo i loro canoni estetici (per lo più incentrati su nozioni non elaborate, apprese da due o tre generazioni di musicisti che hanno tramandato le stesse, sempre avendone cura di non rielaborarle), non possono che perpetuare lo scempio. Il punto, a mio avviso, è un altro: che per ciò che riguarda i pianisti si finisce poi che, il mondo della musica, si concentra e si appassiona nel seguire il Van Cliburn e lo Chopin. (Che pure sono concorsi non del tutto immuni ai peccati di cui sopra; ma almeno ci provano). Per quello che concerne i chitarristi che, invece, si ritengono musicisti mi chiedo: perché vi partecipano, a queste corride della musica, alimentando - anche economicamente - un sistema che, dal punto di vista musicale è completamente e inopinabilmente fallimentare? Se l'unico modo per mettersi in mostra è umiliarsi forse sarà il caso di riflettere sulla possibilità di trovare una terza via, o rimanere a casa.
  5. Riporto qui, a proposito di questo argomento, una risposta che ho scritto stamattina ad un post di cui condivido le intenzioni, scritto da Angelo Marchese, in cui si rimarcava un deficit di conoscenza (e studio) del repertorio da parte dei chitarristi. ​ Scriveva Rosen, a proposito dell'opera pianistica: "Ci vorrebbero solo circa otto ore per leggere tutte le Sonate di Schubert – ancor meno se si saltano i ritornelli – e circa altre cinque per per conoscere il resto che ha scritto per pianoforte solo […] In circa sei mesi di lettura a prima vista per tre ore al giorno si potrebbe passare attraverso la maggior parte della musica per tastiera di Bach, Haendel, Mozart, Chopin, Schumann, Mendelssohn e Brahms. In un altro paio di mesi si possono aggiungere Haydn, Debussy e Ravel. Un’ora e un quarto sarebbe sufficiente per tutta la musica per pianoforte di Schoenberg, e in un’ora e mezza si arriva a Stravinsky, comprese le opere per pianoforte e orchestra, e dieci minuti ciascuno per le opere per pianoforte solo di Webern e Berg. Non aver fatto questo… è un handicap." Alla luce di questo, quello che evidenzia Angelo è giusto: molti chitarristi al di là delle opere che affrontano per studiare, non hanno nemmeno una conoscenza sufficiente del repertorio chitarristico, figuriamoci musicale in senso lato: questo denota una mancanza di cultura che, quando si suona, a prescindere da quanti e quali brani si scelga di suonare, si palesa agli occhi di tutti quelli la cui cultura (musicale e non solo) possa essere definita tale senza provare troppo imbarazzo verso questo termine. In ultimo - anche qui il paragone coi pianisti diventa sempre inevitabile - mi è capitato di seguire con molta passione il Concorso Van Cliburn: non ho potuto non constatare - a monte di tutte le considerazioni sui partecipanti, sulla qualità delle interpretazioni, e quant'altro - che se per la chitarra venisse fatto un concorso con quel sistema: quindi con quella esigenza di quantità di repertorio da suonare a memoria, si creerebbe una cernita - anche tra i professionisti del concorso - impressionante (e forse imbarazzante). Io credo che al Cliburn, fatti i dovuti conti, i candidati arrivino con più di 3 ore di repertorio (e che repertorio!) preparato. Non ho potuto ancora constatare, nella mia conoscenza con pianisti, un loro sviluppo fuori norma delle attività cerebrali e meccaniche che giustifichi una loro esclusiva vocazione alla conoscenza - e alla capacità di saper suonare - un così vasta porzione di repertorio in così poco tempo. Ne educo, quindi, che sia "semplicemente" un fatto culturale, frutto anche dello sviluppo di uno strumento che ha consolidato perfettamente il repertorio, la tecnica per suonarlo, e così via. Non vorrei apparire precipitoso (ammetto, nel dirlo, un pizzico di sarcasmo), ma forse anche per la chitarra potrebbe essere ora di fronteggiare un approccio simile, e al repertorio, e al come suonarlo (non parlo, ovviamente, di tecnica).
  6. Scrive Vinay in “Come si analizza un testo musicale”, una considerazione che mi preme riportare: “Siamo in presenza di una irreversibile afasia delle corde raziocinanti che si riflette anche nel (e modifica il) rapporto tra l'interprete e il testo da interpretare che, in virtù del vuoto metodologico favorito dal generalizzato clima di indifferenza e di servile silenzio nei confronti degli abusi di regime, si trasforma da organismo vitale degno di essere accuratamente indagato a più livelli in oggetto sostitutivo delle celebri macchie di Rorschach, consentendo a chiunque di dare libero sfogo alle proprio pulsioni esistenziali e di contrabbandarle in termini di rutilanti prodotti analitici da esibire nei consessi assembleari o sui periodici di propaganda gestiti dalle gerarchie burocratiche di ogni tipo e calibro. Un comportamento schizofrenico di questo tipo ha un senso solo se inquadrato nel progetto di gerarchizzazione fondato sul principio di Orwell, secondo cui “Ignoranza è Forza”, inteso a generare passività e conformismo. In quest'ottica la cosiddetta “scienza severa” altro non è se non il biglietto d'ingresso in una gerarchia in cui le possibilità di emergere sono determinate dal successo commerciale derivante dagli abusi perpetrati a danno dei testi. Il messaggio è chiaro: sulla musica non si ragione, perché la musica è fascinazione, evocazione di emozioni che pertengono alla sfera vitale di un privato indicibile. Chi vuole capire la musica può solo attingere ai racconti che narrano degli struggimenti che questa provoca in “orecchia” addestrate e che dalle “orecchia” vanno direttamente al cuore, senza inciampare nei meandri di un'attività mentale qualsiasi che, trascinandola nella melma di un terrorizzante metalinguaggio, ne rovinerebbe l'incanto.” Questa tendenza (deriva) a vivere l'arte a mo' di rotocalco rosa, come contenitore di tutte le paturnie esistenziali del fantomatico artista che, proprio in luce del fatto che sono sue, private, ecc, pretende la sospensione di qualsivoglia critica (non parlo di giudizio) sulla sua opera, perché è sua, è il suo sentire, alla gente piace, ecc; ecco, tutto questo lo sottolinea anche Deleuze, alludendo al fatto che la diretta conseguenza di questo sistema di pensiero è la pericolosa asserzione che siamo tutti poeti. Siccome tempo fa, in questo forum, si era molto dibattuta la legittimità (secondo me sacrosanta) di distinguere - e identificare - lo spessore di una certa composizione (e interpretazione) piuttosto che di un'altra, ecco, questa di Vinay (chiamiamola razionale-analitica) e quella di Deleuze (chiamiamola storica e socio-culturale) mi paiono due visioni che potrebbero fornire un certo strumento di discrimine per filtrare i contenuti di ciò che si ha sottomano, non meno che per compiere - da parte degli interpreti - anche una certa autocritica sulla leggerezza con cui - spesso - si affrontano dei testi musicali. Tutto questo, lo dico per inciso, mi trova d'accordo senza voler negare qualsivoglia forma di spontaneità o frivolité (per dirla con il Bertolucci di Stealing Beauty) a cui ogni artista - nella misura che più propriamente gli si confà - è chiamato a rispondere.
  7. La chitarra è stata venduta, e non è più disponibile. Grazie, G.
  8. Chitarra Salvador Ibañez dei primi anni del '900. La chitarra è perfettamente restaurata, funzionante, ed ha uno splendido suono: dotata di grande equilibrio, ha una notevole proiezione nonostante le dimensioni leggermente ridotte della cassa armonica. Invio foto e informazioni varie agli interessati che me ne faranno richiesta. Il prezzo, trattabile, è di 3.000 €.
  9. Chitarra del liutaio argentino Edgar Bosco, anno 2008. Il liutaio, formatosi nella bottega di Emilio Pascual, costruisce i suoi strumenti tenendo viva una concezione estetica del “suono” che affonda le sue radici direttamente nei lavori di Francisco Simplicio, Miguel Simplicio, e in maniera minore di Enrique Garcia. La chitarra ha il piano armonico in abete, e le fasce e il fondo sono in sicomoro*. Il prezzo, di 2.000€, non è trattabile. Valuto invece permute con strumenti di liuteria storica. Invio, ovviamente, foto e tutti i dettagli aggiuntivi che mi si richiederanno agli interessati. * dopo accurata e attenta ricerca ho potuto stabilire che il legno utilizzato per fasce e fondo, e che Edgar Bosco chiama appunto, sul cartiglio, Sicomoro, è in realtà Acero Montano, (Acer pseudoplatanus) detto appunto e comunemente Sicomoro: legno di assoluto pregio per quello che riguarda l'utilizzo nel campo della liuteria. Da non confondersi con il “vero” Sicomoro (Ficus sycomorus), pianta africana e mediorientale che non ha niente a che vedere con l'acero di cui sopra.
  10. Strano mondo, quello della chitarra, che quando parla di carenza di repertorio (una carenza tutta immaginaria, trattando in questo caso di musica del '900 e contemporanea) parla sempre con grandi complessi di inferiorità e grandi rimpianti di Beethoven, Mahler, Shostakovich (cito nomi estremamente altisonanti di proposito), e quando si tratta di difendere la dignità artistica del “proprio” repertorio finisce con la rivendicazione a piè sospinto della qualità musicale (perché al pubblico piace, e al chitarrista anche) di Giochi Proibiti. Il film omonimo, da cui è tratto il brano in questione è del 1952 e, tanto per fare un esempio, il sempre mai abbastanza rimpianto Shostakovich, nello stesso periodo compone il suo quartetto n°5. Aggiungo, in risposta al Maestro Carfagna, che non metto in dubbio che a Petrassi possa esser piaciuto o meno Giochi Proibiti, non posso saperlo, né francamente mi interessa. Mi interessa invece il fatto che Petrassi, nel momento in cui decise di scrivere per chitarra sola, abbia composto Suoni Notturni, e Nunc. A dimostrazione (?) che, il (mero) divertimento da un lato (chiamiamolo anche intrattenimento senza il timore di offendere nessuno: da sempre, non ha accezioni negative l'intrattenere qualcuno), e l'impegno artistico dall'altro sono cose ben distinte, di cui peraltro nessuno, mi sembra, vuol negare la convivenza. Una nota a margine: per Deleuze, nel suo abecedario, la C di Culture significava oltremodo incontro. L'incontro che, nel momento in cui si decide di fruire di un'opera d'arte, può capitare di avere con le idee. Ora mi chiedo, senza nessuna vena polemica, in quale incontro potrà mai imbattersi l'uditorio a cui si sottopongono le proprie paturnie esistenziali sotto forma di Giochi Proibiti, e nello specifico nell'incontro di quali idee. Giacomo
  11. Essendo stato iscritto al vecchio ordinamento dei conservatori italiani prima, e al nuovo ordinamento (per loro unico) universitario di uno dei tre conservatori superiori francofoni del Belgio, mi sento di esprimere umilmente un mio giudizio sulle differenze tra queste due realtà. La prima e più grande differenza è che, per esempio in Belgio, chi sceglie un percorso di tipo accademico lo sceglie sapendo di impegnarsi a tempo pieno, per almeno tre anni, come musicista. Ho visto ragazzi entrare al triennio con programmi equiparabili al nostro V anno del vecchio ordinamento, suonati per altro non benissimo, terminare lo stesso primo anno con risultati eccellenti, suonando, molto bene, programmi di tutto rispetto. Di contro, in una classe di 10 persone (iscritti sia al triennio che al biennio), abbiamo terminato l'anno in 5. Dei ritirati: alcuni hanno smesso dopo essersi resi conto della mole di lavoro che erano chiamati a sostenere, mentre altri sono stati invece invitati a rimandare gli esami all'anno successivo, delegando la loro formazione agli assistenti, e lasciando quindi libero il professore di lavorare solo con i restanti. Questo sistema di cose mi sembra possibile, e attuabile, in un'organizzazione dei conservatori molto diversa da quella italiana. Sia in Belgio, che in Francia, i conservatori superiori di musica sono pochi (in tutta la francia sono solo due: Parigi e Lione), di contro c'è un vastissimo numero di conservatori (in Belgio chiamati “accademie”) dislocati sul territorio in cui potersi preparare fino ad un determinato livello. Molti di questi ultimi, tra l'altro, rilasciano diplomi che permettono di diventare insegnanti. La situazione italiana la conosciamo tutti: ci sono moltissimi conservatori, tutti sono abilitati a formare fino al massimo titolo di studi ottenibile in Italia. Nella classi, spesso, l'interesse medio degli iscritti per il repertorio del proprio strumento, l'impegno nello studio e la vivacità intellettuale sono aspetti fortemente penalizzati da una politica che, pur di non perdere allievi, cerca di tenere dentro tutti, assegnando inoltre punteggi altissimi agli esami. Da questo ne deriva un atteggiamento ancor più agghiacciante: si confonde il diritto allo studio, con il diritto al successo accademico. Il diritto allo studio, invece, resta un diritto vero quando all'interno dell'agenzia che lo presta vigono regole meritocratiche. Mi spiego: dare a tutti il diritto di poter studiare in un ambiente mediocre, che rilascia facilmente titoli di studio è un servizio peggiore che dare a tutti la possibilità di studiare, ma in un ambiente altamente selettivo. Almeno così pare a me. Io penso che i conservatori, in Italia, dovranno per forza di cose trovare a breve il modo di andare avanti rendendo conto unicamente della qualità che producono, senza doversi preoccupare del numero degli iscritti e lasciando questo aspetto quantitativo ad altre istituzioni. Mi rendo conto che questo è un discorso scomodo, specie nel caso in cui la perdita di allievi dovesse comportare la chiusura di alcune classi, ma se è vero che ancora, almeno un po', interessa la qualità del servizio che si tenta di offrire, non vedo come poter auspicare una situazione diversa. Con questo non voglio elogiare il nuovo ordinamento per partito preso. E anzi mi perplime, per esempio, il numero di discipline e la quantità di ore settimanali che un allievo è costretto a frequentare obbligatoriamente. Perché non so agli altri, ma a me capita, per suonare decentemente, di dover studiare un bel po'. Quanto agli aspetti negativi di questa riforma, che il Maestro Bonaguri giustamente chiama in causa (e non so se li ho elencati qui sopra: di sicuro ne esisteranno degli altri, che io non considero) mi chiedo, senza retorica, se riuscirebbero a peggiorare una situazione che, indipendentemente dal tipo di riforma, è ai minimi storici per quello che concerne l'aspetto qualitativo della formazione che rilascia. Sono fiducioso però che, impegnandosi a dovere, presto si potrà correre ai ripari di una situazione ancora peggiore di questa, rimpiangendo i conservatori di oggi. Seppure, l'esercizio di fantasia richiesto per immaginare un futuro così, non è cosa da poco. giacomo
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