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Se uno è sicuro al 100% non è detto che pecchi di presunzione, semplicemente può avere la coscienza apposto.

 

Mi appare una cosa talmente ovvia, Nicola, che mi chiedo che cosa vi sia da domandarsi in merito.

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Se uno è sicuro al 100% non è detto che pecchi di presunzione, semplicemente può avere la coscienza apposto.

 

Mi appare una cosa talmente ovvia, Nicola, che mi chiedo che cosa vi sia da domandarsi in merito.

 

Si domanda cosa domandarsi? è già una domanda.

 

 

Faccio un ultimo tentativo, poi mi sa che stacco veramente:

lei stesso ammette che ogni performance non è sempre matematicamente al top (massimo delle proprie possibilità) ma possono esserci situazioni in cui vi è minore lucidità.

No. Io stesso, talvolta e a seconda delle circostanze mi sento più o meno in forma.

Considerato che si è sentito in causa tanto da autocitare le sue personali prestazioni, e sott'intendendo che lei è senz'altro preparato sia musicalmente che tecnicamente (sennò non avrebbe ragione di parlare), cosa determina secondo lei una maggiore o minore lucidità? Il fatto che lei stesso ammetta che, umanamente come tutti, anche lei non è sempre al top (massimo delle proprie possibilità) non le sembra una contraddizione (stando ai suoi ragionamenti) col fatto che lei sia preparato?

 

(non stò sostenendo che lei suoni bene/male o che sia preparato/non preparato, sto solo testando il suo ragionamento su di lei).

 

 

La prego quindi (mi riservi questa gentilezza) di rispondere in primis alla seguente domanda e poi alle altre, se vuole:

Alla luce di quanto appena detto e alla luce della sua testimonianza personale lei si sente di sostenere ancora che una solida preparazione tecnico/musicale sia l'unico fattore che condizioni una pubblica esecuzione?

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Sono stato assente dal forum per qualche giorno e constato che la discussione si è molto allargata.

Intervengo per un paio di precisazioni su cose da me affermate in precedenza.

Una di quelle che intendevo dire è che, terminato il compositore il suo lavoro, quello dell'interprete consiste nel far vivere il pezzo (Stravinski direbbe che il compito dell'interprete è il passaggio tra la musica in potenza e quella in atto). Per questo dicevo che le potenzialità contenute nel pezzo di musica (addirittura oltre le intenzioni o la consapevolezza totale di chi pure il pezzo l'ha scritto) emergono, o continuano ad emergere indefinitamente, quando questo, "in atto", viene suonato per qualcuno.

In un rapporto aumenta non solo la coscienza di sé, ma anche di quello che si sta proponendo. A me non capita solo quando suono, ma anche quando insegno, e credo che questo sia forse l'aspetto più bello, del suonare come dell'insegnare, e che tantissimi insegnanti potrebbero testimoniare. Non è che prima uno non sappia cosa dire, ma nel comunicarla ad un altro la cosa si riscopre ogni volta di più, si illumina, si arricchisce di nuovi significati.

Segovia diceva che la interpretazione è una "sintesi in continua espansione"; credo che questa espansione ad un certo punto sia favorita anche dalla comunicazione del pezzo, che introduce nuovi elementi. Per questo sono veramente curioso, prima di un concerto mio, di quello che verrà fuori, e diversi compositori che conosco mi hanno detto di avere scoperto aspetti nuovi del loro pezzo attraverso quello che succede quando lo sentono suonare.

 

E' vero che si tratta di un processo di maturazione, e grandissimi interpreti hanno anche sofferto di paura da palcoscenico, pur continuando a lavorare, che si vedesse o meno (credo che anche Segovia ne abbia sofferto, oltre a Julian Bream). E' importante che questa cosa non blocchi, e la consapevolezza di cui sopra aiuta.

Per quanto mi riguarda, so ad esempio che al termine di un concerto sono molto più sciolto che all'inizio - però bisogna pure iniziarlo, il concerto. E ho imparato come anche l'emozione e perfino i suoi riflessi fisici possono essere anch'essi incanalati ed usati. Posso provare ad usare bene l'inizio di un concerto (con i suoi riscontri psicofisici su di me che ormai conosco) come anche la seconda parte (nella quale in genere mi sento diversamente, più sciolto - e anche questo comporta possibilità e rischi)

 

Quanto ai farmaci, ansiolitici, betabloccanti eccetera, io non li uso e non li consiglio. Non escludo che in qualche situazione estrema (un disagio psicologico o fisico dell'ultimo momento, ad esempio) sia meglio averli sottomano piuttosto che annullare l'impegno(un esame, per esempio) improvvisamente.

Però sarebbe meglio che rimanessero confinati alle emergenze, e che sul resto dei problemi si lavorasse, continuando nel frattempo a suonare, come tanti fanno, affrontando quel problema come tanti altri con cui si deve convivere nella vita vera.

Come diceva quel famoso allenatore di pallavolo, Velasco, l'alzata non si discute, si risolve! Lo dice qui, è molto istruttivo anche per noi!:

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Si domanda cosa domandarsi? è già una domanda.

 

Legga meglio: mi chiedo che cosa ci sia da domandarsi.

 

 

Faccio un ultimo tentativo

 

A che pro? Credo che con una lettura anche superficiale del thread siano chiare le posizioni.

Mi piacerebbe, invece, leggere interventi di altri colleghi.

 

Buona giornata

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Se uno è sicuro al 100% non è detto che pecchi di presunzione, semplicemente può avere la coscienza apposto.

 

Oppure è parte della musica che sta interpretando.

Credo che il nodo cruciale dell'essere interprete sia quello di saper restare all'interno di ciò che si sta suonando, esser lì con il pensiero musicale.

A quel punto la paura di sbagliare non può più esistere, in quanto facente parte di un altro universo sensoriale che non riguarda l'esecuzione.

In fondo si tratta di qualcosa di molto semplice...certo non lo sono altrettanto, a volte, le modalità con cui arrivarci.

 

Sono comunque convinto che l'interprete sia una persona che vuole dire la sua e lo fa rischiando in sicurezza. Parrebbe un ossimoro ma non lo è...forse è proprio la consapevolezza del rischio che attraverso l'esecuzione si tramuta nella capacità di lasciare tutto il resto del mondo al di fuori.

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Non è un ossimoro, una delle cose che ho imparato con l'esperienza è di suonare solo cose che arrivano al 70 % circa delle mie possibilità, sia tecniche che interpretative, per poter essere sicuro di dire la mia con una certa tranquillità e sicurezza.

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Si domanda cosa domandarsi? è già una domanda.

 

Legga meglio: mi chiedo che cosa ci sia da domandarsi.

 

Che è ben diverso, lo ammetto.

 

 

 

A che pro? Credo che con una lettura anche superficiale del thread siano chiare le posizioni.

Mi piacerebbe, invece, leggere interventi di altri colleghi.

 

Buona giornata

 

Vedo che evita accuratamente di rispondere alla mia domanda, ma gliela pongo di nuovo:

 

Alla luce di quanto appena detto e alla luce della sua testimonianza personale lei si sente di sostenere ancora che una solida preparazione tecnico/musicale sia l'unico fattore che condizioni una pubblica esecuzione?
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Una di quelle che intendevo dire è che, terminato il compositore il suo lavoro, quello dell'interprete consiste nel far vivere il pezzo (Stravinski direbbe che il compito dell'interprete è il passaggio tra la musica in potenza e quella in atto). Per questo dicevo che le potenzialità contenute nel pezzo di musica (addirittura oltre le intenzioni o la consapevolezza totale di chi pure il pezzo l'ha scritto) emergono, o continuano ad emergere indefinitamente, quando questo, "in atto", viene suonato per qualcuno.

 

Per questo sono veramente curioso, prima di un concerto mio, di quello che verrà fuori, e diversi compositori che conosco mi hanno detto di avere scoperto aspetti nuovi del loro pezzo attraverso quello che succede quando lo sentono suonare.

 

 

Questo è indubbiamente uno degli aspetti più sconvolgenti, rivelatori e meravigliosi dello scrivere musica...scoprirsi attraverso l'altro.

Il processo di scrittura è per me qualcosa di strano...una miscela di consapevolezza e di delirio...alla fine leggo cosa ho scritto, ma a quel punto, la musica è già altrove...aspetta di essere sequestrata.

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Oppure è parte della musica che sta interpretando.

Credo che il nodo cruciale dell'essere interprete sia quello di saper restare all'interno di ciò che si sta suonando, esser lì con il pensiero musicale.

A quel punto la paura di sbagliare non può più esistere, in quanto facente parte di un altro universo sensoriale che non riguarda l'esecuzione.

In fondo si tratta di qualcosa di molto semplice...certo non lo sono altrettanto, a volte, le modalità con cui arrivarci.

 

Sono comunque convinto che l'interprete sia una persona che vuole dire la sua e lo fa rischiando in sicurezza. Parrebbe un ossimoro ma non lo è...forse è proprio la consapevolezza del rischio che attraverso l'esecuzione si tramuta nella capacità di lasciare tutto il resto del mondo al di fuori.

 

salve mr Alfredo!

Ti do del tu,se non va bene,correggetemi.

La volta scorsa ho risposto forse in modo non adeguato perchè ho chiesto

x Alfredo Franco: sei sempre così..snob?

Non era un'offesa ,ma era la mia impressione dal mio punto di vista. Sincera e spontanea.

Ossimoro (mi brucia ma lo ammetto) sono andata a leggere sul vocabolario per capire che in pratica è una contraddizione di termini.

Forse per chi è colto la cosa è scontata,ma per me neanche un po.

Quando una persona parla,lo scopo del suo parlare dovrebbe essere "spiegarsi".Se il mio medico parla a mia nonna con termini tecnici e qualche parola in inglese ogni tanto,scusate,ma succede davvero,beh a me viene da chiedermi come mai,lui,chè ha un livello culturale diverso(mia nonna ha fatto laterza elementare e se ne vanta) non capisce che alla persona che ha davanti dovrebbe parlare con parole e ragionamenti semplici.

Ma veniamo a noi,mr Alfredo.

Quello che ho riportato di tuo è bellissimo.Ho c apito anche le sfumature .

L'ho capito perchè quella descritta è una situazione che mi capita.

Restare all'interno della musica o essere consapevole di essere tu la musica.

E quando mi capita rischio in sicurezza,come dici tu.

verifichiamo: dopo una corona ,magari lunghetta realizzo che se vado al tempo canonico di studio e riparto così non va bene,in un istante faccio mio tutto il senso della parte seguente,forte del fatto che la conosco benissimo,e la prendo con velocità diversa,suono diverso,magari mi accento una nota o la vibro ,in pratica mi metto in gioco.perchè in fondo è un gioco.Complicato,terribile,profondo.. ma a me piace pensare che è un gioco.

Bisognerebbe fare così,ma visto che è andata cosà faccio quello che non ho mai neanche provato a fare.

E qui entra in gioco Cristiano, perchè tutto questo lo puoi fare solo se,come dice lui, sei stata seduta ore a studiare

Mr Alfredo,dice che ho capito qualcosa?

Un ciao simpatico a tutti

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devo dire, al contrario, di essere totalmente estraneo a questo modo di concepire la composizione.

So, anche per esperienza, che raramente l'interprete scopre "aspetti nuovi" dei brani che scrivo. Se è qualcosa di nuovo normalmente questo qualcosa non c'è scritto sulla parte e non è neppure gradito (se si vuole ancora dare ad un testo un significato).

Solitamente, almeno fin ora, l'interprete si limita semplicemente ad avvicinarsi, con più o meno interesse, a ciò che c'è scritto.

Io so esattamente come suonano i mie brani e se non suonano come io li ho ideati la colpa è solo della mia scrittura.

Se per caso dovessero suonare altrimenti è perchè solo io ho predisposto il testo ad una particolare libertà interpretativa che chiedo all'interprete di colmare.

Non credo quindi al testo che non vede l'ora di essere sequestrato. Non più di tanto. Credo, ed è quello che con milioni di difficoltà sto cercando di fare, al lavoro del compositore insieme all'interprete.

Per quello che riguarda il sequestro, inevitabile quando si comincia a pubblicare delle musiche, mi affido al buon senso del lettore. Suona ciò che c'è scritto e saremo tutti felici e contenti. 8-)

 

Come se "ciò che c'è scritto" - una simbologia - diventasse suono per effetto di magia. E no, non è così. Prima di diventare suono, quei simboli passano attraverso un processo di decodificazione che ha luogo nella mente di chi suona. Il lavoro di chi suona incomincia da un leggio fisico, sì; ma prima di diventare suono il leggio fisico, afono, si converte in un leggio mentale, pre-sonoro: è lì, caro amico, che si gioca la partita. Chi suona non attinge ai simboli se non in una prima fase, e i suoni, prima di produrli fisicamente, li modella nella sua mente. Che non è uguale a quella del compositore. Quindi l'esortazione "suona quel che c'è scritto" è una metafora semplificatoria. Ma perché scrivo questo, dal momento che Lei lo sa benissimo? Dai, non faccia il furbo.

 

dralig

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