Salve Maestro, ospito l'intervento di un amico che ha letto il suo articolo: 
  
Alcuni amici chitarristici mi hanno segnalato il suo testo e, leggendolo, sono 
nate queste righe di commento. Innanzitutto mi presento: sono un filologo e, 
dunque, mi occupo di questioni inerenti la trasmissione e l’interpretazione dei 
testi (nel mio caso di testi musicali). Premetto questo non per nascondermi 
dietro una patina accademica, ma perché le cose di cui lei parla nel suo 
intervento mi stanno veramente a cuore; costituiscono cioè la modalità 
particolare con cui mi avvicino e cerco di conoscere un’opera d’arte. Detto 
questo, le confesso che ho trovato i suoi commenti molto interessanti. E’ 
evidente che lei parte da uno spunto buono e ultimamente condivisibile: l’ 
urgenza di conoscere l’oggetto della propria ricerca risalendo alle fonti, di 
capire il contesto che le ha generate, di elaborare dei criteri per indirizzare 
il proprio lavoro di interprete e per giudicare più consapevolmente quello 
altrui. 
Per quanto mi riguarda, preferisco non entrare nel merito specifico delle 
questioni tecniche che lei solleva; mi preme piuttosto esprimere un giudizio di 
metodo. Ciononostante sono fermamente persuaso che nelle trascrizioni di 
Segovia esista una verità artistica in grado di portare alla luce la immanente 
vitalità dell’opera d’arte, cui nulla aggiunge e nulla toglie la maggiore o 
minore fedeltà storica. Mi rendo conto che al giorno d’oggi, in cui tutto corre 
il rischio di essere relativizzato, può essere difficile o per certuni persino 
fastidioso parlare di ‘verità artistica’. Tuttavia, è proprio l’amore a questa 
verità che dovrebbe guidare il nostro lavoro, tanto di interpreti quanto di 
filologi. E, a ben vedere, si tratta della medesima verità artistica che pure 
avvalora le trascrizioni di Bach – un autore che lei certamente ama e che ebbe 
molti meno scrupoli di Segovia nel mediare attraverso le proprie concezioni 
estetiche le opere dei suoi contemporanei. 
Alessandro Borin