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Giacomozzi

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  1. Ciao, la chitarra della registrazione è una chitarra del giovane e bravissimo Francesco De Gregorio. Una chitarra ispirata a Torres, con fasce e fondo in cipresso. Quella della foto è invece una Pascual Viudes del 1925.
  2. Ovvero, un'ipotesi interpretativa che mi sono fatto sui suoi “caprichos goyeschi”. Una lettura attenta dell'opera in questione, prima ancora che uno studio vero e proprio, impone - all'interprete accorto - una riflessione sulla scrittura di Castelnuovo-Tedesco, per ciò che concerne il suo rapporto con la chitarra classica - strumento per cui, in questo caso, scrive. Se anche è evidente che i caprichos non si discostino prepotentemente dalla restante produzione del compositore, mi pare di intuire, in quest'opera in particolare, un'amplificazione e un'esaltazione di quelle che sono tutte le caratteristiche di MCT, per quello che riguarda la sua scrittura per chitarra. Al di là di semplici evidenze riguardanti la scrittura non propriamente idiomatica per lo strumento - in primo luogo per quello che riguarda la reale suonabilità di alcuni fraseggi, accordi o soluzioni impiegate in intere sezioni - si fa evidente la volontà, del compositore, di ottenere da uno strumento come la chitarra, una varietà di timbri, di espressioni e soprattutto dinamiche impossibili a qualsiasi chitarra, prima ancora che chitarrista. A mio avviso, queste scelte, non possono essere giustificate dalla banale evidenza che Castelnuovo-Tedesco non conoscesse, se non da ascoltatore, le possibilità della chitarra; né dal fatto che - in quel senso - il suo termine di paragone più vicino (al momento della scrittura) fosse uno strumento completamente diverso, (e opposto se si pensa alla natura intima della chitarra, che evidentemente Castelnuovo-Tedesco non ignorava) come il pianoforte. In questi giorni mi sono fatto un'idea che, a mio avviso, nobilita ed esalta l'intento del compositore, e lo esula da quello che per alcuni è una ricerca di possibilità che la chitarra non può ottenere: sono infatti ormai convinto che Castelnuovo-Tedesco, all'epoca della scrittura dell'op 195, fosse ben cosciente di quelle che avrebbero potuto essere le possibilità dinamiche della chitarra (dedicherà buona parte della sua attività di compositore alla chitarra, e ad un interprete che di certo non possiamo considerare privo di possibilità espressive): nel mantenere una così vasta tavolozza espressiva - e mi ripeto, soprattutto per ciò che riguarda la dinamica - io credo che abbia giocato un ruolo decisivo l'idea di chitarra, più volta espressa da Segovia, come strumento musicale evocatore di suoni orchestrali (non una chitarra imitatrice: la differenza è infatti sostanziale). Un'idea - quella di Segovia - che evidentemente affonda le radici, pur mutandone la resa nel tempo, in quella che fu la rivoluzione llobettiana della chitarra impressionista: con possibilità timbriche - date e dallo strumento utilizzato, e dalla mano destra, e dalle posizioni da ricercare per la mano sinistra - grandissime. In questo senso, pur non conoscendone alcune peculiarità, io credo che un compositore come Castelnuovo-Tedesco, ponendo l'interprete non tanto a fare i conti con delle reali richieste del compositore, ma con un'immaginario sonoro, evidentemente orchestrale, da rendere con efficacia, abbia capito in maniera profonda l'essenza e la natura intima della chitarra. Il musicista che voglia, riuscendoci, rendere vivi i contrasti, dovrà infatti - prima ancora che tentare tecnicamente tutte le varie possibilità concessegli dal suo virtuosismo - entrare nell'ottica onirica della chitarra (appunto sognata) del compositore fiorentino: immaginare suoni inauditi, nel tentativo di proporre non tanto il suono in sé, ma un'idea di suono, che ne evochi a sua volta un'altra. Una doppia lettura (e forse paradossale nell'esigenza di unire due mondi opposti) tanto cara a Goya, che nella resa di immagini oniriche, immaginifiche, si impone una lucida analisi (prima che una critica) di un'intera società. Come nel caso di una delle più note incisioni goyesche della raccolta: “El sueño de la razón produce monstruos”, dove l'ambivalenza del significato del termine sueño ci suggerisce che i mostri possono essere generati dal sonno della ragione, tanto quanto dal “sogno” della ragione: dove il sogno è inteso come limite estremo di un'utopica visione del mondo iper-razionale. Così mi pare di aver intuito essere anche la scrittura di Castelnuovo-Tedesco, nello specifico per quello che riguarda quest'opera, culmine del suo pensiero sulla chitarra, essa ci impone, partendo ovviamente da una lucida ed analitica lettura del testo, di entrare a contatto con il lato più fervido della nostra immaginazione. Con relative sorprese - come sempre accade in questi casi - per ciò che l'interprete scopre di sé.
  3. Sacrosanto. Ma forse sarebbe anche opportuno che i chitarristi accorti inizino a valutare e a dosare con più minuzia la loro partecipazione ai concorsi. I concorsi, sembrerà strano, vivono della partecipazioni di concorrenti che, iniziando drasticamente a mancare, farebbero riflettere non poco gli organizzatori. Anche il pianoforte, tornando al paragone con i pianisti, ha una miriade di concorsi/beffa come la chitarra stessa li ha. Una gara all'ultima nota nel vortice dell'interpretazione più arida, insulsa e insignificante che, puntualmente, delude i musicisti che vi partecipano: gli stessi concorsi chiamano a giudici vincitori passati che, secondo i loro canoni estetici (per lo più incentrati su nozioni non elaborate, apprese da due o tre generazioni di musicisti che hanno tramandato le stesse, sempre avendone cura di non rielaborarle), non possono che perpetuare lo scempio. Il punto, a mio avviso, è un altro: che per ciò che riguarda i pianisti si finisce poi che, il mondo della musica, si concentra e si appassiona nel seguire il Van Cliburn e lo Chopin. (Che pure sono concorsi non del tutto immuni ai peccati di cui sopra; ma almeno ci provano). Per quello che concerne i chitarristi che, invece, si ritengono musicisti mi chiedo: perché vi partecipano, a queste corride della musica, alimentando - anche economicamente - un sistema che, dal punto di vista musicale è completamente e inopinabilmente fallimentare? Se l'unico modo per mettersi in mostra è umiliarsi forse sarà il caso di riflettere sulla possibilità di trovare una terza via, o rimanere a casa.
  4. Riporto qui, a proposito di questo argomento, una risposta che ho scritto stamattina ad un post di cui condivido le intenzioni, scritto da Angelo Marchese, in cui si rimarcava un deficit di conoscenza (e studio) del repertorio da parte dei chitarristi. ​ Scriveva Rosen, a proposito dell'opera pianistica: "Ci vorrebbero solo circa otto ore per leggere tutte le Sonate di Schubert – ancor meno se si saltano i ritornelli – e circa altre cinque per per conoscere il resto che ha scritto per pianoforte solo […] In circa sei mesi di lettura a prima vista per tre ore al giorno si potrebbe passare attraverso la maggior parte della musica per tastiera di Bach, Haendel, Mozart, Chopin, Schumann, Mendelssohn e Brahms. In un altro paio di mesi si possono aggiungere Haydn, Debussy e Ravel. Un’ora e un quarto sarebbe sufficiente per tutta la musica per pianoforte di Schoenberg, e in un’ora e mezza si arriva a Stravinsky, comprese le opere per pianoforte e orchestra, e dieci minuti ciascuno per le opere per pianoforte solo di Webern e Berg. Non aver fatto questo… è un handicap." Alla luce di questo, quello che evidenzia Angelo è giusto: molti chitarristi al di là delle opere che affrontano per studiare, non hanno nemmeno una conoscenza sufficiente del repertorio chitarristico, figuriamoci musicale in senso lato: questo denota una mancanza di cultura che, quando si suona, a prescindere da quanti e quali brani si scelga di suonare, si palesa agli occhi di tutti quelli la cui cultura (musicale e non solo) possa essere definita tale senza provare troppo imbarazzo verso questo termine. In ultimo - anche qui il paragone coi pianisti diventa sempre inevitabile - mi è capitato di seguire con molta passione il Concorso Van Cliburn: non ho potuto non constatare - a monte di tutte le considerazioni sui partecipanti, sulla qualità delle interpretazioni, e quant'altro - che se per la chitarra venisse fatto un concorso con quel sistema: quindi con quella esigenza di quantità di repertorio da suonare a memoria, si creerebbe una cernita - anche tra i professionisti del concorso - impressionante (e forse imbarazzante). Io credo che al Cliburn, fatti i dovuti conti, i candidati arrivino con più di 3 ore di repertorio (e che repertorio!) preparato. Non ho potuto ancora constatare, nella mia conoscenza con pianisti, un loro sviluppo fuori norma delle attività cerebrali e meccaniche che giustifichi una loro esclusiva vocazione alla conoscenza - e alla capacità di saper suonare - un così vasta porzione di repertorio in così poco tempo. Ne educo, quindi, che sia "semplicemente" un fatto culturale, frutto anche dello sviluppo di uno strumento che ha consolidato perfettamente il repertorio, la tecnica per suonarlo, e così via. Non vorrei apparire precipitoso (ammetto, nel dirlo, un pizzico di sarcasmo), ma forse anche per la chitarra potrebbe essere ora di fronteggiare un approccio simile, e al repertorio, e al come suonarlo (non parlo, ovviamente, di tecnica).
  5. Scrive Vinay in “Come si analizza un testo musicale”, una considerazione che mi preme riportare: “Siamo in presenza di una irreversibile afasia delle corde raziocinanti che si riflette anche nel (e modifica il) rapporto tra l'interprete e il testo da interpretare che, in virtù del vuoto metodologico favorito dal generalizzato clima di indifferenza e di servile silenzio nei confronti degli abusi di regime, si trasforma da organismo vitale degno di essere accuratamente indagato a più livelli in oggetto sostitutivo delle celebri macchie di Rorschach, consentendo a chiunque di dare libero sfogo alle proprio pulsioni esistenziali e di contrabbandarle in termini di rutilanti prodotti analitici da esibire nei consessi assembleari o sui periodici di propaganda gestiti dalle gerarchie burocratiche di ogni tipo e calibro. Un comportamento schizofrenico di questo tipo ha un senso solo se inquadrato nel progetto di gerarchizzazione fondato sul principio di Orwell, secondo cui “Ignoranza è Forza”, inteso a generare passività e conformismo. In quest'ottica la cosiddetta “scienza severa” altro non è se non il biglietto d'ingresso in una gerarchia in cui le possibilità di emergere sono determinate dal successo commerciale derivante dagli abusi perpetrati a danno dei testi. Il messaggio è chiaro: sulla musica non si ragione, perché la musica è fascinazione, evocazione di emozioni che pertengono alla sfera vitale di un privato indicibile. Chi vuole capire la musica può solo attingere ai racconti che narrano degli struggimenti che questa provoca in “orecchia” addestrate e che dalle “orecchia” vanno direttamente al cuore, senza inciampare nei meandri di un'attività mentale qualsiasi che, trascinandola nella melma di un terrorizzante metalinguaggio, ne rovinerebbe l'incanto.” Questa tendenza (deriva) a vivere l'arte a mo' di rotocalco rosa, come contenitore di tutte le paturnie esistenziali del fantomatico artista che, proprio in luce del fatto che sono sue, private, ecc, pretende la sospensione di qualsivoglia critica (non parlo di giudizio) sulla sua opera, perché è sua, è il suo sentire, alla gente piace, ecc; ecco, tutto questo lo sottolinea anche Deleuze, alludendo al fatto che la diretta conseguenza di questo sistema di pensiero è la pericolosa asserzione che siamo tutti poeti. Siccome tempo fa, in questo forum, si era molto dibattuta la legittimità (secondo me sacrosanta) di distinguere - e identificare - lo spessore di una certa composizione (e interpretazione) piuttosto che di un'altra, ecco, questa di Vinay (chiamiamola razionale-analitica) e quella di Deleuze (chiamiamola storica e socio-culturale) mi paiono due visioni che potrebbero fornire un certo strumento di discrimine per filtrare i contenuti di ciò che si ha sottomano, non meno che per compiere - da parte degli interpreti - anche una certa autocritica sulla leggerezza con cui - spesso - si affrontano dei testi musicali. Tutto questo, lo dico per inciso, mi trova d'accordo senza voler negare qualsivoglia forma di spontaneità o frivolité (per dirla con il Bertolucci di Stealing Beauty) a cui ogni artista - nella misura che più propriamente gli si confà - è chiamato a rispondere.
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  6. Strano mondo, quello della chitarra, che quando parla di carenza di repertorio (una carenza tutta immaginaria, trattando in questo caso di musica del '900 e contemporanea) parla sempre con grandi complessi di inferiorità e grandi rimpianti di Beethoven, Mahler, Shostakovich (cito nomi estremamente altisonanti di proposito), e quando si tratta di difendere la dignità artistica del “proprio” repertorio finisce con la rivendicazione a piè sospinto della qualità musicale (perché al pubblico piace, e al chitarrista anche) di Giochi Proibiti. Il film omonimo, da cui è tratto il brano in questione è del 1952 e, tanto per fare un esempio, il sempre mai abbastanza rimpianto Shostakovich, nello stesso periodo compone il suo quartetto n°5. Aggiungo, in risposta al Maestro Carfagna, che non metto in dubbio che a Petrassi possa esser piaciuto o meno Giochi Proibiti, non posso saperlo, né francamente mi interessa. Mi interessa invece il fatto che Petrassi, nel momento in cui decise di scrivere per chitarra sola, abbia composto Suoni Notturni, e Nunc. A dimostrazione (?) che, il (mero) divertimento da un lato (chiamiamolo anche intrattenimento senza il timore di offendere nessuno: da sempre, non ha accezioni negative l'intrattenere qualcuno), e l'impegno artistico dall'altro sono cose ben distinte, di cui peraltro nessuno, mi sembra, vuol negare la convivenza. Una nota a margine: per Deleuze, nel suo abecedario, la C di Culture significava oltremodo incontro. L'incontro che, nel momento in cui si decide di fruire di un'opera d'arte, può capitare di avere con le idee. Ora mi chiedo, senza nessuna vena polemica, in quale incontro potrà mai imbattersi l'uditorio a cui si sottopongono le proprie paturnie esistenziali sotto forma di Giochi Proibiti, e nello specifico nell'incontro di quali idee. Giacomo
  7. Essendo stato iscritto al vecchio ordinamento dei conservatori italiani prima, e al nuovo ordinamento (per loro unico) universitario di uno dei tre conservatori superiori francofoni del Belgio, mi sento di esprimere umilmente un mio giudizio sulle differenze tra queste due realtà. La prima e più grande differenza è che, per esempio in Belgio, chi sceglie un percorso di tipo accademico lo sceglie sapendo di impegnarsi a tempo pieno, per almeno tre anni, come musicista. Ho visto ragazzi entrare al triennio con programmi equiparabili al nostro V anno del vecchio ordinamento, suonati per altro non benissimo, terminare lo stesso primo anno con risultati eccellenti, suonando, molto bene, programmi di tutto rispetto. Di contro, in una classe di 10 persone (iscritti sia al triennio che al biennio), abbiamo terminato l'anno in 5. Dei ritirati: alcuni hanno smesso dopo essersi resi conto della mole di lavoro che erano chiamati a sostenere, mentre altri sono stati invece invitati a rimandare gli esami all'anno successivo, delegando la loro formazione agli assistenti, e lasciando quindi libero il professore di lavorare solo con i restanti. Questo sistema di cose mi sembra possibile, e attuabile, in un'organizzazione dei conservatori molto diversa da quella italiana. Sia in Belgio, che in Francia, i conservatori superiori di musica sono pochi (in tutta la francia sono solo due: Parigi e Lione), di contro c'è un vastissimo numero di conservatori (in Belgio chiamati “accademie”) dislocati sul territorio in cui potersi preparare fino ad un determinato livello. Molti di questi ultimi, tra l'altro, rilasciano diplomi che permettono di diventare insegnanti. La situazione italiana la conosciamo tutti: ci sono moltissimi conservatori, tutti sono abilitati a formare fino al massimo titolo di studi ottenibile in Italia. Nella classi, spesso, l'interesse medio degli iscritti per il repertorio del proprio strumento, l'impegno nello studio e la vivacità intellettuale sono aspetti fortemente penalizzati da una politica che, pur di non perdere allievi, cerca di tenere dentro tutti, assegnando inoltre punteggi altissimi agli esami. Da questo ne deriva un atteggiamento ancor più agghiacciante: si confonde il diritto allo studio, con il diritto al successo accademico. Il diritto allo studio, invece, resta un diritto vero quando all'interno dell'agenzia che lo presta vigono regole meritocratiche. Mi spiego: dare a tutti il diritto di poter studiare in un ambiente mediocre, che rilascia facilmente titoli di studio è un servizio peggiore che dare a tutti la possibilità di studiare, ma in un ambiente altamente selettivo. Almeno così pare a me. Io penso che i conservatori, in Italia, dovranno per forza di cose trovare a breve il modo di andare avanti rendendo conto unicamente della qualità che producono, senza doversi preoccupare del numero degli iscritti e lasciando questo aspetto quantitativo ad altre istituzioni. Mi rendo conto che questo è un discorso scomodo, specie nel caso in cui la perdita di allievi dovesse comportare la chiusura di alcune classi, ma se è vero che ancora, almeno un po', interessa la qualità del servizio che si tenta di offrire, non vedo come poter auspicare una situazione diversa. Con questo non voglio elogiare il nuovo ordinamento per partito preso. E anzi mi perplime, per esempio, il numero di discipline e la quantità di ore settimanali che un allievo è costretto a frequentare obbligatoriamente. Perché non so agli altri, ma a me capita, per suonare decentemente, di dover studiare un bel po'. Quanto agli aspetti negativi di questa riforma, che il Maestro Bonaguri giustamente chiama in causa (e non so se li ho elencati qui sopra: di sicuro ne esisteranno degli altri, che io non considero) mi chiedo, senza retorica, se riuscirebbero a peggiorare una situazione che, indipendentemente dal tipo di riforma, è ai minimi storici per quello che concerne l'aspetto qualitativo della formazione che rilascia. Sono fiducioso però che, impegnandosi a dovere, presto si potrà correre ai ripari di una situazione ancora peggiore di questa, rimpiangendo i conservatori di oggi. Seppure, l'esercizio di fantasia richiesto per immaginare un futuro così, non è cosa da poco. giacomo
  8. Una risposta: http://blog.wired.it/ifiona/2012/02/08/continuate-a-rubare-continuate-a-lamentarvi-o-se-preferite-siate-ladri-siate-stronzi-ovvero-perche-lo-scaricamento-non-e-un-diritto-manco-per-sogno.html
  9. Segnalo un articolo (che esprime concetti sui quali sto riflettendo da tempo, e che non ho ancora chiarito a me stesso) che può interessare per quello che concerne il futuro dell'editoria (anche musicale), del diritto d'autore, e delle implicite e generali conseguenze che questi cambiamenti potrebbero comportare nella vita di un artista. http://lettura.corriere.it/il-dilemma-morale-dell%E2%80%99ebook-pirata/ Buona lettura, Giacomo Palazzesi
  10. Giacomozzi

    Il genio di torno

    http://www.youtube.com/watch?v=GYMP_Oeey50 L'ennesimo genio incoraggiato dalla Rai (la stessa Rai di C'è musica e musica di Berio, trasmissione che a guardarla oggi sembra rappresentare un futuro parallelo, una realtà potenziale che non abbiamo più percorso) , che scrive la musica per il papa, che dirige un'orchestra milanese senza pubblico in un teatro di Londra che ha tutta l'aria di essere a Milano, che millanta successi mai avuti. È un incubo tutto nostrano che si ripete proprio a pochi mesi dall'evidente discesa della parabola Allevi. Abbiamo bisogno solo di eccentricità, di colpi di scena, di usare la parola genio con entusiasmo e facilità, di gente che simula inadeguatezza, balbuzie ed eccentricità quando dalla loro persona emerge solo un vuoto culturale spaventoso. Degni di nota i commenti al video, non tanto quelli dei detrattori quanto quelli dei sostenitori che sembrano aver (ri)trovato, finalmente, lo scemo da coccolare. Fa comodo così, che la musica sia un passatempo per eccentrici idioti teneroni tutti da coccolare: è un'immagine che si perpetua nel tempo, non sappiamo più se causa o sintomo di una cultura che non solo non capisce e non conosce la musica ma che non ha evidentemente idea di cosa diavolo significa studiare seriamente per suonare uno strumento, o dirigerne altri. Non ho parlato della sua musica ma basta resistere fino al minuto sette, circa, del video: “[...] un mix tra Bach(s) e Mozart [...]” Giacomo Palazzesi
  11. Riccardo Chailly, Beethoven, il metronomo, la chitarra, il dito, la luna (ma nessuna notizia dei due liocorni). Il problema dei metronomi beethoveniani è un problema annoso e anche letterale. Per anni studiosi eminenti e meno si sono chiesti non solo i motivi di quelle indicazioni di tempo così veloci, ma sono arrivati a chiedersi se il metronomo ad uso di Beethoven non fosse rotto. Risolta la seconda e banale questione, anch'essa abbastanza recentemente, ci si è concentrati soltanto e finalmente sulle ipotetiche ragioni che hanno portato un compositore con un orecchio interno così evoluto alla scelta di tempi tanto sconcertanti. Non nuove sono state, nel corso degli anni, le registrazioni di interpreti più o meno legati alla filologia che si sono provati nell'avvicinarsi o attenersi alla lettera, e in maniera pedante o meno a quello che Beethoven scrisse. I risultati sono, a mio avviso migliorati nel tempo per tutta una serie di motivi, e tutti questi motivi conseguenti ai quesiti che si sono via via posti gli interpreti: come mai qui metronomi? Non sarà che gli strumenti, pianoforte compreso, erano così completamente diversi da condizionare l'andamento melodico di un tema, un soggetto o anche di un andamento armonico? Se è vero che (parlo di alcune sonate per pianoforte, ma per attinenza anche di alcune sinfonie, tra cui la sesta per intero, l'adagio della nona, ecc) attenersi alla lettera all'indicazione di tempo ci porta a mettere meno in evidenza alcuni episodi musicali, ad appannare quella chiarezza tanto cara a molti interpreti passati (e agguerriti spesso più nel palesare la loro personalità che la pagina scritta) non potrebbe essere che il compositore ne fosse cosciente, e fosse, la chiarezza, una cosa secondaria rispetto ad altre caratteristiche? E quindi di conseguenza: quali potrebbe essere le caratteristiche peculiare che Beethoven si aspettava da un interprete? Nel momento in cui si vuole operare una operazione di estrema fedeltà come quella di cui sopra non potrebbe essere che, ad un certo punto, subentri la necessità di rivedere il fraseggio che ormai consideriamo per assodato e che ci è tanto caro memori di alcune strepitose incisioni del passato? Naturalmente queste domande non pretendono una risposta, e non la avranno in maniera definitiva ed inequivocabile da nessuna persona di cui si possa garantire la ragionevolezza, ma il porsele o meno genera una serie di riflessioni che portano inevitabilmente a scelte stilistiche ed estetiche completamente differenti. L'incisione di Riccardo Chailly in particolare, a mio avviso, si pone con insistenza l'ultima domanda che ho posto. E in questo senso è da intendersi nuova, non perché ripropone i metronomi originali, non è di certo il primo, ma perché riesce a farlo con coerenza. Può non piacere il risultato, (ma forse potrebbe essere il punto di partenza per una ricerca su di un nuovo modo di intendere questa musica che porterà a risultati ugualmente coerenti ma magari un po' più disinvolti) e in alcuni momenti lasciarci perplessi, ma difficilmente si può dire irragionevole, pedante, noioso, sterile e incoerente la combinazione di tempo, dinamiche, e fraseggi che caratterizzano questa incisione discografica. Ne scrivo in questo forum però non per elogiare, o palesare il mio apprezzamento per un prodotto, un interprete e un'orchestra che non hanno certo bisogno di sostenitori; è invece una riflessione ulteriore, nata in me ad alcuni giorni dal primo ascolto di alcuni cd dell'integrale che mi ha portato alla condivisione di questi pensieri. La chitarra, anzi i chitarristi, anzi alcuni chitarristi si sono sempre lamentati, prima della carenza di repertorio, e poi del fatto che il repertorio scritto nel novecento lasciasse una serie di problemi, non ultimi quelli tecnici, irrisolti; questo perché a scrivere per chitarra, in un determinato periodo storico, sono stati compositori che della chitarra non conoscevano quasi il funzionamento, o che non erano sicuramente padroni della scrittura, e non parlo solo della notazione, ma anche e soprattutto dell'agogica: problema quest'ultimo generato probabilmente dal fatto che un compositore che scrive per chitarra e non conosce la chitarra spesso non ha in mente il suono della chitarra. Ho citato l'esempio dei chitarristi e della musica per chitarra però perché spesso, monchi di una certa cultura musicale, siamo stati legati al segno più che ogni altro strumento: e allora per anni ci siamo scervellati, dopo aver studiato esclusivamente su musiche filtrate da altri, su quale fosse il manoscritto (quando finalmente il manoscritto è stato possibile confrontarlo) più manoscritto di altri di questa o quella composizione, schiavi del segno, sudditi del Forte anziché del Fortissimo e via discorrendo. Come se la chitarra fosse l'unico strumento, complice come dicevo il fatto di aver avuto compositori che non conoscevano lo strumento, ad avere questo tipo di problemi e peggio, come se lo sviluppo culturale di questo strumento fosse legato (soltanto) alla corretta visualizzazione di un microscopico segno di diteggiatura - ma quello era un 4 o un 1? Mentre forse una volta venuti in possesso (e ripeto - finalmente!) di questi preziosi documenti, non più schiavi della lettura altrui, del filtro (per un certo periodo prevalentemente segoviano) di una data composizione avremmo potuto iniziare ad interrogarci non soltanto su questioni grafiche ma finalmente su scelte estetiche, su decisioni derivanti da quali e quante domande porsi e non dalla pretesa di avere sempre delle risposte. Il metronomo di Beethoven forse ce lo insegna: alcuni strumenti hanno deciso, almeno per un periodo non breve, che quel problema sarebbe rimasto un problema: un grave problema, ma stimolante. Questi hanno smesso di cercare risposte all'esterno (non tutti) e si sono dedicati alla riflessione interna e profonda: la sintesi tra le ipotesi che potrebbero essere plausibili nel rappresentare la volontà del compositore e il proprio sentire, frutto di un vissuto non solo musicale. Ognuno decide così quali ulteriori domande porsi partendo da un interrogativo iniziale - perché quel tempo? - e palesa la propria ricerca con l'interpretazione. Sembra che in alcuni momenti la chitarra si sia illusa (perché poi?) che la carta scritta direttamente dal compositore avrebbe potuto non lasciare spazio ad interrogativi profondi, e per fortuna così non è stato. Anche nell'assoluta chiarezza della semiografia ci sono questioni che dovremo affrontare, e se così non fosse ci troveremo di fronte alla pretesa di trasformare l'interpretazione musicale in dottrina anziché in arte. A questo proposito potrebbe essere utile riscoprire l'etimo della parola “interprete”... (e interrogarsi, anche su questo). Forse la questione dei tempi in Beethoven ci insegna (a me piace che le cose insegnino altre cose, che abbiano una morale. Mi ha rovinato Fedro) che per la chitarra i manoscritti - finalmente! - significano nuove domande. Non risposte certe, ma l'inizio delle domande giuste. Non vorrei esagerare, né peccare di presunzione, ma chi cerca risposte chiare e definitive in una pagina musicale e si scoccia di fronte ai possibili interrogativi che una pagina musicale ci offre mi sembra che guardi troppo (o solo) il dito (e in questo caso lo si può dire forte!) anziché la luna. Buon anno. Giacomo Palazzesi
  12. Un libro comprato da mesi, letto distrattamente senza entusiasmi e a cui mi ero ripromesso di dedicare un po' di attenzione in un momento meno agitato della mia vita. Ora che mi sono preso il tempo giusto posso dire che Presagios è un'opera letteralmente folgorante a patto che e nel momento in cui ci si predisponga alla giusta attenzione nel capire la estrema raffinatezza stilistica dei versi di Salinas unita a quelle perle, intuizioni, Presagios appunto che sono momenti folgoranti di visioni che, pur sotto i nostri occhi, solo il ”poeta” sembra riuscire a mettere a fuoco con tanta lucidità (visionarietà?). Un esempio (lo riporto nella traduzione italiana, l'originale potrà essere facilmente reperito in rete da chi lo vorrà): La luna stava per casa e nessuno lo sapeva. Dalla finestra era entrata, però già era stata accesa la lampada e lei viene trascurata, umilissima, in un angolo. Disse il padre: «Presto cambierà la luna, che mi fa male la gamba». La bambina stava zitta, presa in nostalgia romantiche di castelli con la luna da figurine tedesche. E mamma, che non aveva né ideali o reumatismi, disse: «Ora andiamo a letto. Spegneremo la lampada». Non appena se ne andarono, i fiori che stavano lì sul tavolo si videro dipinta l'anima di luna e di ombra di luna sulla bianca pace del muro. Ne scrivo qui nel forum di chitarra perché la biografia del poeta (nello specifico la frequentazione con la cultura parigina da un lato e il legame fortissimo con le tradizioni e il folklore spagnolo dall'altro) nei momenti in cui la si riesce a cogliere e leggere dai versi dà vita ad uno stato d'animo e ad una serie di collegamenti, riferimenti e idee che nella musica collego a e colgo in De Falla, in parte, ma in misura forse maggiore in José e nella sua sonata per chitarra. Nella sonata, e nei presagios si ha (mi sembra) l'impressione di camminare sempre e costantemente su due binari separati, due piani di lettura che riescono allo stesso tempo ad essere ben distinti e complementari l'uno all'altro: il folklore, ma in queste due opere mi sentire di chiamarlo letteralmente “la terra” e il sublime. Chi non dovesse avere le capacità o l'apertura per coglierli entrambi contemporaneamente si sentirà privato anche del piano di lettura che più gli risulterà immediato ed evidente. Questo mi pare, e questo è il motivo della mia fascinazione. Mi scuso se nello scrivere ho generalizzato senza riportare esempi e musicali e poetici ma il tempo è tornato ad essere tiranno e l'argomento mi sembra troppo interessante per non rifletterci a dovere ancora per qualche tempo. Ho scelto di pubblicare nella sezione off-topic perché di questo, mi sembra, si tratti. Ma non me ne vogliano i moderatori nel caso avessi sbagliato a collocarlo. Concludo con quella che mi sembra una dichiarazione di intenti, un tentavo riuscito di descrivere la poetica di questo volumetto da parte dell'autore: [...] Nulla mi mette limiti al di fuori: né sentiero che involgi e non alture che all'anima sia dolce superare. La vita è arresa agli alveari interiori e libera da assurde legature può infine in sé i suoi orizzonti creare. Buona giornata a tutti. Giacomo Palazzesi
  13. Dalle chitarre che ho avuto modo di provare (una “casa Nuñez”, una Daniel Lago Nuñez, e una Rafael Galan; per una strana serie di equivoci con il venditore Argentino non ho potuto provare gli strumenti che avevo messo in oggetto, semplicemente perché ancora in Argentina) sono rimasto piuttosto deluso. Delle tre soltanto la Rafael Galan mi ha affascinato per alcune caratteristiche del suono. L'idea che mi sono fatto è che sull'ondata di questo entusiasmo per gli strumenti storici girano anche parecchi strumenti mediocri a prezzi alcune volte alti, e comunque sicuramente non ragionevoli se applicati a quello specifico strumento. Eppure il suono che ho avuto modo di ascoltare dal vivo degli strumenti di liuteria cosiddetta storica mi affascina molto e pertanto non considero certamente chiusa la mia ricerca. Due parole invece su Gabriele Lodi, che ho avuto modo di conoscere in questa occasione, vorrei spenderle. Si tratta, oltre che di un giovanissimo liutaio, di una persona estremamente cordiale e disponibile e le sue qualità di liutaio sono notevoli: ho avuto modo di apprezzare un suo strumento, appena costruito ispirato ad un modello Garcia, le cui caratteristiche mi hanno molto colpito in positivo ma che purtroppo era già stato venduto. Giacomo
  14. Grazie Maestro, ho chiesto un appuntamento per visionarle di persona e farmi un'idea sui costruttori e sulla qualità dei singoli strumenti. Giacomo.
  15. Salve a tutti, vendendo una mia chitarra mi sono state proposte tre chitarre in permuta: una Galan del 1927, una Dominguez del 1915 e una Del Vecchio non datata ma probabilmente dello stesso periodo. Cercando in rete non ho trovato molte notizie sui liutai in oggetto, tranne qualcosa su Galan e mi domandavo se qualcuno avesse in mente qualche libro, o sito, o enciclopedia, o non so cosa, dove poterle reperire. Inoltre sarei grato a chiunque sapesse indicativamente dirmi in linea del tutto teorica un prezzo minimo e massimo per le chitarre di questi liutai per il periodo che ho indicato. Ringrazio in anticipo chiunque avrà la pazienza di aiutarmi. Giacomo.
  16. Segnalo questo interessante saggio uscito sul sito della Wu Ming fondation e firmato Wu Ming1. Spero possa interessare qualcuno: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241
  17. Salve a tutti, come da oggetto, sono incappato in questo annuncio, che a me, per usare un eufemismo è parso almeno strano. Di seguito l'annuncio completo: Ora, a me non interessa questo posto di lavoro ma sono soltanto curioso di sapere se alla luce delle vostra esperienza vi è mai capitato di dover pagare per sostenere un esame per ottenere un posto in un'accademia privata. Peraltro anche le altre informazioni mi sembrano vaghe, e per giunta avrei qualcosa da ridire anche sulle tre foto, ma di certo non è questo il punto. Io insegno da pochi anni ma mi sono fatto l'idea che sia ragionevole e spesso, quando il colloquio è serio, sinonimo di serietà da parte della scuola che si chieda un colloquio col candidato prima di assumerlo come insegnante ma mai, e dico mai, mi è mai capitato che mi si chiedano dei soldi per farlo, e mai mi era capitato di leggerlo, fino ad oggi. Forse cado io dalle nuvole. Di seguito il sito dell' “accademia” : http://www.accademiaprofessionale.com/
  18. http://www.youtube.com/watch?v=pfvQNBSkQPw Il brano soffre di tutti gli inconvenienti delle esecuzioni live: errori, capotasto capriccioso e, dovrebbe esserci, un cane che abbaia... Registrato con uno Zoom H4 (vecchio modello)
  19. Forse dico banalità e spero di non inciampare in grossolane corbellerie: l'estetica di Segovia sembra filtrare tutto quello che suona: tutto viene suonato seconda un'ottica e una visione musicale ben precisa, quella segoviana, forse figlia del suo tempo: che si tratti di Castelnuovo-Tedesco o Ponce o Rodrigo da un lato, o Sanz e Scarlatti o Bach dall'altro poco importa. Questo a mio avviso, oltre a non essere un difetto se lo si considera in termini a-temporali diventa forse la prassi se lo si inquadra in un contesto storico culturale ben preciso: mi riferisco alle incisioni di Horowitz interprete di Scarlatti, o al Karajan interprete di Beethoven e addirittura Bach (si pensi, se non erro, alle modificazioni dell'organico orchestrale a favore di un'idea di suono e di pensiero musicale coerenti con l'epoca dell'interprete più che del compositore che si esegue). Va detto però che forse oggi (va sottinteso che il tutto è frutto di mie riflessioni personali, il tutto deve essere letto preceduto da un sottinteso “secondo me” che preferisco non ripetere ogni volta per non essere pedante e ripetitivo) non ha molto senso intraprendere questo tipo di percorso (siamo anche noi figli del nostro tempo, a quanto pare...) e non mi riferisco tanto alla concezione estetica dell'interprete che può essere di stampo più o meno filologico, più o meno fedele al testo, più o meno eccentrica nelle scelte interpretative (in questo senso ogni scelta, se dettata da una profonda conoscenza del linguaggio che si va a suonare e da una conoscenza in senso più ampio, perché no, della grammatica musicale può essere giusta e, ancora più importante, rispettabile) La strada invece che non vedo percorribile è quella dell'interprete che in Segovia vede una strada da continuare a percorrere per quello che riguarda le scelte estetiche (qualcuno li definiva emuli ma in questo senso io ci vedo degli epigoni): non ha senso, a mio avviso, perché non solo non aggiunge niente a quanto già detto (si sa che poi il repertorio praticato da chi compie ragionamenti simili è anche lo stesso di Segovia tra l'altro) ma non è neanche la continuazione della sua ricerca. Sono speculazioni che lasciano il tempo che trovano ma, banalmente e in tono semplicistico mi verrebbe da pensare che Segovia, oggi, non so se suonerebbe à la Segovia. Giacomo
  20. In effetti l'erba del vicino è sempre più verde! è o sembra? .... Va anche detto che la libera circolazione e riconoscimento dei titoli in Europa per ora è solo sulla carta ed è ben lungi dall'essere una realtà, quindi se vuoi rimanere a lavorare in Italia conviene prendere il titolo in Italia e semmai aggiungere una specializzazione all'estero. “[...] Bisogna avere prima di tutto uno spirito di sacrificio inimmaginabile”. Chissà cosa penserebbe oggi Benedetti-Michelangeli guardando tutto questo? È giusto mettere da parte la propria formazione musicale perché poi non si sa se il pezzo di carta verrà riconosciuto in Italia? È giusto rimanere in un ambiente che per molti motivi, (primi tra tutti la burocrazia bieca e arrogante, i corsi di psicopedagogia della quarta corda e la cintura nera di solfeggi e canti corali vari) mette i bastoni tra le ruote a chi ha come obiettivo principale la propria formazione musicale? È giusto assoggettarsi ad un sistema di cui non condividiamo né modi né obiettivi solo perché poi ci rilascia un pezzo di carta per entrare a nostra volta in un sistema che non amiamo ma che a quel punto non avremo modo di cambiare? Tutte le domande non sono da vedersi in tono polemico: io ho scelto di andarmene, sono felice delle mie scelte, ed è stato il mio caro e insostituibile insegnante qui in Italia a consigliarmi o spingermi a farlo, quindi la cosa è avvenuta con molta serenità. Solo che ogni scelta comporta dei pensieri e delle perplessità. Quelle sopra sono le mie domande, quelle che mi sono posto per qualche mese in passato, e mi chiedo se delle volte le risposte che mi sono dato non siano troppo idealistiche e fuori da un contesto al contrario sempre più pratico. Questo per dire che rispetto e delle volte ammiro chi per esempio riesce a frequentare corsi, sapendo di perdere tempo, solo perché “si deve fare”, mentre nel frattempo io ho sempre preferito studiare con lo strumento, o frequentare il corso di composizione, o leggere nuova musica. Ormai penso spesso alle parole di un mio collega qui in Italia dette in buona fede e in totale amicizia, perché amici siamo, che una volta in cui parlavamo dei miei programmi all'estero, del fatto che frequentavo una classe di sole otto persone, che le lezioni funzionavano in altro modo ecc e parlando poi del fatto che una nostra ex collega di corso in Italia, famosa in conservatorio per non esser capace di fare non dico una nota giusta, ma neanche un secondo di musica mentre suona mi disse: “vedi, quella t'è passata avanti”. Lo disse alludendo ovviamente al titolo e al concludersi di un percorso che le avrebbe permesso, finalmente (!) di smettere di studiare. È ovvio che in un contesto del genere, con una mentalità del genere, non solo il consiglio che darei è quello di rimanere in Italia, ma anche quello di studiare il meno possibile, visto che poi si intende smettere appena ottenuto il pezzo di carta. Io non ne capisco, e non capisco neanche come si possa studiare pensando che lo si sta facendo per dovere, che poi tutto finirà, (manco fosse il servizio di leva); non capisco il senso di approcciarsi all'arte alla maniera di un banchiere in cerca di guadagni e posto fisso, ma tant'è che dovrà pur esserci; del resto, sempre per alludere ad una citazione, questa volta di Marchesi, e un poco più terra terra: “[...] milioni di mosche non possono sbagliare.”
  21. A questo indirizzo: http://www.easyjet.com/IT/prenota/regulations.html#baggage alla voce “Tariffe per attrezzature sportive e strumenti musicali” dove è indicato “Strumenti musicali” si legge: «Gli strumenti musicali possono essere trasportati solo nella cabina dell'aeromobile e devono essere sistemati negli scomparti sopra i sedili, previa la disponibilità di spazio e rigorosamente a discrezione del Comandante. Gli strumenti, inclusa la custodia, non devono essere di dimensioni superiori a 30x117x38 cm. Gli strumenti che rientrano in questa categoria sono i seguenti: violino, viola, ottavino, flauto, clarinetto, corno e tromba. Tutti gli strumenti di dimensioni superiori a 30x117x38 cm devono essere imbarcati come bagaglio registrato. Il peso massimo per ogni singolo bagaglio è di 32 kg.» La chitarra in una custodia di normali dimensioni rientra nelle dimensioni previste di 30x117x38. Altro non saprei dire.
  22. Easyjet però ha cambiato la regolamentazione interna, l'ha comunicato intorno alla metà di gennaio, ora non ho la possibilità di cercare nel sito ma mi ero appuntato questo: "Saranno accettati a bordo strumenti fino a 30x117x38cm, in modo che possano entrare facilmente negli scompartimenti sopra i sedili." e anche: “Siamo orgogliosi di sostenere il ricco patrimonio musicale europeo e sappiamo che molti musicisti volano con noi per raggiungere festival e concerti in tutta Europa. Teniamo la loro attività in grande considerazione e crediamo che la politica di easyJet per gli strumenti musicali sarà musica per le loro orecchie” credo che c'entri in qualche modo qualche sindacato dei musicisti, ma ripeto non posso controllare e quindi non vorrei dire fesserie. Forse è colpa mia ma non mi sento di portare la chitarra in una custodia morbida ma se volesse essere così cortese da indicare qualche modello che lei ritiene affidabile che abbia soddisfatto i requisiti di sicurezza, robustezza e resistenza alla pioggia glie ne sarei grato.
  23. Salve a tutti, non scrivo molto qui per mancanza di tempo ma sono da anni un appassionato lettore. Ultimamente mi capita di viaggiare molto con la chitarra e così ho accumulato dubbi e perplessità che vorrei condividere con voi, forse a qualcuno potranno essere utili le mie esperienze e forse qualcuno potrà contribuire a risolvere alcuni problemi. I voli: quando si deve viaggiare in aereo e non si vuole spendere una cifra enorme bisogna affidarsi alle compagnie low cost (che spesso lo sono solo di nome e pochissimo di fatto, ma questo è un altro discorso). Per esperienza ho visto che quando si viaggia con rayanair, forse la più famosa tra queste compagnie l'unico modo per stare tranquillo viaggiando con la chitarra è acquistare un biglietto “extra item seat” aggiuntivo: con questo biglietto si riserva appunto un posto aggiuntivo al nostro fianco su cui sistemare la chitarra. Easyjet invece, solo da poco tempo, permette di viaggiare con la chitarra come bagaglio a mano (l'inconveniente in questo caso è non poter portare un altro bagaglio a mano). Entrambe le possibilità mi hanno dato modo di riflettere sui modelli di custodie esistenti nel mercato e ipotizzare la loro reale utilità o meno: per prima cosa devo dire che la più comoda con cui ho viaggiato è stata una VGV in poliuretano con chiusura zip e tasca anteriore: la comodità in questo caso è dovuta ad una tasca anteriore molto capiente che risolve il problema del peso del bagaglio a mano, caricando la chitarra per esempio con tutti gli spartiti, quaderni e astucci vari, o addirittura un laptop di medie dimensioni. I contro sono un peso veramente eccessivo, sia della custodia in sé e sia ovviamente per il carico aggiunto. Altre custodie molto comode sono quelle in fiberglass, di aspetto futuristico, sono molto leggere e spesso danno l'illusione che in caso di estrema necessità possano anche fungere da gommone di salvataggio. Sono poco resistenti, non ci si può salire sopra per dire ma mi è capitato di dover imbarcare la chitarra gli altri bagagli e allentando le corde e sistemando della gomma piuma in alcuni punti strategici dell'interno della chitarra ho sempre evitato di danneggiare lo strumento. (forse è stata fortuna) In quei momenti, mentre volavo e non avendo la chitarra a mio fianco pensavo se non fosse stato il caso di acquistare delle custodie ancora più resistenti (magari in fibra di carbonio) per stare ancora più sicuro: ultimamente ce ne sono anche a prezzi non esagerati e in ogni caso varrebbero se servissero realmente a garantire la sicurezza al 100% di uno strumento. Le mie perplessità ora sono: è mai possibile che nessuno abbia capito l'utilità di appiccicare una tasca anteriore anche in custodie robuste e dall'aspetto accattivante, o è solo una mia esigenza del tutto futile e ridicola che voi avete risolto in modi più intelligenti o dispendiosi? E inoltre: ha senso comprare una custodia più robusta e resistente, ma spesso più pesante sapendo che mai più si imbarcherà la chitarra con i bagagli nella stiva, e quindi riducendo le possibilità che questo avvengo a fortuiti imprevisti come aver dimenticato di acquistare il biglietto, o dover viaggiare con una chitarra in più? E in ultima cosa, a chi viaggia spesso vorrei chiedere, ripetendomi: avete trovato soluzioni migliori delle mie per viaggiare con lo strumento con un minimo di serenità? Ci sono compagnie aeree che permettono di portare la chitarra con sé in cabina? E in quelle in cui è permesso è permesso anche viaggiare con un ulteriore bagaglio a mano? Mi scuso in anticipo per la poca rilevanza e per il poco interesse sotto l'aspetto strettamente musicale della discussione, e per l'eccessiva prolissità di quello che ho scritto. Buono studio a tutti, Giacomo.
  24. da qui http://www.cristianoporqueddu.it/forumchitarraclassica/viewtopic.php?t=972&start=48 alla fine del 3d trovi un interessante scambio di opinioni, tra cui la mia...rinnovo in ogni caso il mio invito a non generalizzare (una frase come:cieca adolatria di alcuni suoi seguaci privi di talento, che cosa vuole dire? qual'è il punto musicale/estetico che si vuole criticare? lgli unici ad aver dato a una risposta sensata mi pare solamente siano stati Attademo e Gilardino) ma cominciare a prendere la sana abitudine di parlare delle opere citando i relativi autori (p.es la sonata di Boulez vale quanto Le marteau?) ciao intendevo dire che c'è stato un periodo in cui dietro la apparente facilità della composizione dodecafonica o seriale in generale si nascondevano compositori privi di talento che non avrebbero saputo comporre in altra maniera, questo per dirla alla De La Motte, puoi trovare questo pensiero nel suo libro sul contrappunto, nel capitolo riguardante la scrittura moderna. Un conto è scegliere la dodecafonia come mezzo espressivo, vedi Dallapiccola e Berg che per me sono gli esempi migliori e anche i compositori che più ammiro, un conto è "rifugiarsi" nella dodecafonia. Questo è quanto. P.S. per cieca idolatria intendo quel fanatismo che ha caratterizzato il modo di comporre di molti seguaci di schoenberg che per molto tempo hanno applicato le regole in maniera molto più radicale di chi le aveva create per esigenza, tra l'altro esigenza del tutto personale. P.P.S. Anche io trovo più sensati gli interventi del Maestro Gilardino, li trovo più completi per particolari, competenza e eseprienza dei miei e di conseguenza di molti altri, ma il mio desiderio di esprimermi mi costringe e mi autorizza a scrivere ugualmente con il rischio che ne consegue, se la cosa ti disturba non ti curar di me ma guarda avanti... il resto lo consci. Spero comprenderai che la mia critica no è rivolta a Schoenberg, che io adoro tra la'ltro né ai suoi seguaci più interessanti, ma a chi ha fatto dell'avanguardia una necessità, anteponendo la ricerca di novità, di innovazione alla reale esigenza creativa e espressiva.
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