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Una importante analisi sulle possibilità di compilazione di un programma pianistico.

 

La scelta del programma è un aspetto del recital ancora oggi spesso trascurato o sottovalutato, eppure sono molte le considerazioni interessanti che scaturiscono da questo argomento.

 

Dando una scorsa ai repertori dei primi recital, ci si rende conto che la storia del repertorio concertistico è ricca di sorprese e paradossi: attraverso i programmi di sala dei concerti, infatti, è possibile risalire alle abitudini d’ascolto diffuse nel passato, calcolare il grado di popolarità di un determinato autore o brano, e le attitudini degli esecutori di ogni epoca a frequentare con maggiore o minor frequenza repertori diversi. Dalla fine dell’Ottocento, inoltre, il recital non è stato più considerato solamente come una proposta musicale antologica principalmente finalizzata all’intrattenimento o alla dimostrazione (spesso narcisistica) delle doti dell’esecutore, ma anche come un segno della coscienza interpretativa dell’esecutore (almeno nei casi in cui i programmi siano scelti da lui e non imposti dagli organizzatori o da circostanze esterne).

 

S’intende, ancor oggi l’intento spettacolare e drammaturgico è (per fortuna!) presente nel recital pianistico (o almeno nelle buone intenzioni dei concertisti). Ma sovente, accanto a questo, emerge una propensione a voler indirizzare l’ascolto verso alcuni aspetti delle musiche eseguite, attraverso l’accurata selezione e disposizione dei vari brani. Le potenzialità della composizione dei programmi sono pressoché infinite; senz’altro una particolare selezione dei brani esercita una notevole influenza sulle reazioni del pubblico, risultando a volte determinante per decretare il successo o l’insuccesso della carriera di un pianista. Prima, però, di spingersi oltre nell’analisi dei meccanismi che regolano la scelta dei programmi, sarà utile osservare come i pianisti di oggi esprimano diversi approcci della composizione dei programmi. Questi possono effettivamente essere schematizzati in varie categorie, tenendo conto, naturalmente, che come tutte le schematizzazioni si tratta solo di una semplificazione esplicativa, e non di una descrizione esaustiva.

 

1. I programmi “tradizionali”.

 

Sono espressione dell’atteggiamento ancor oggi considerato più comune e normale nel comporre un programma da concerto. La consuetudine vuole, dagli anni ’50 ad oggi, che il recital comprenda brani della durata complessiva compresa tra i 60 e i 90 minuti, scelti ed ordinati secondo alcuni precisi clichés: la disposizione dei brani segue di solito l’ordine cronologico, ed il brano conclusivo è selezionato (e spesso interpretato) in modo da scatenare un notevole applauso. Ciò comporta la scelta di brani con una fine particolarmente brillante e spettacolare, oppure di opere di grande imponenza formale e di lunga durata, cosicché l’applauso conclusivo sia alimentato (oltre che dal sollievo per la fine di un ascolto lungo ed impegnativo) anche dall’ammirazione del pubblico per il pianista che ha affrontato un’opera di speciale difficoltà.

 

La “tradizione” tende anche a relegare i brani contemporanei ad un ruolo secondario ed opzionale, e comunque evitando che essi superino, di solito, la durata di pochi minuti. Un recital tradizionale “tipico” è quello cristallizzato dai programmi ministeriali relativi all’esame di diploma di pianoforte nei conservatori italiani. Si tratta di dettami risalenti agli anni ’20, tanto che Brahms viene considerato un “autore moderno” (!) e, per ovvie ragioni, compositori di importanza storica, come Stockhausen, Boulez, Ligeti, Cage, Feldmann, Berio, non sono neanche nominati! In base a questi programmi ministeriali, tuttavia, molti pianisti italiani costruiscono ancor oggi, oltre che (com’è ovvio) il loro programma d’esame, anche gran parte dei loro recital. Iniziano quindi con un brano di Bach o una sonata di Beethoven (più raramente Mozart o Schubert), proseguono con pezzi romantici (Schumann, Chopin, Brahms, di rado Mendelssohn) e terminano con sonate o brani virtuosistici di Liszt, Prokofiev, Rachmaninoff (del quale la seconda sonata è molto più eseguita della prima), Scriabin, Ravel, Strawinsky. Il Petruscka di quest’ultimo, insieme con il Mephisto-Walzer di Liszt, con le variazioni Brahms/Paganini, la seconda sonata di Rachmaninoff e la settima di Prokofiev, rappresenta, poi il brano conclusivo più scontato ed inflazionato per i giovani pianisti neodiplomati.

 

Lo schema suddetto presenta indubbiamente una sua coerenza, e, se utilizzato con intelligenza, consente di costruire programmi efficaci e di godibile ascolto. Tuttavia, le potenzialità della scelta di un programma sono molto più ampie quando il pianista acquisisce una maggiore libertà nel selezionare ed accostare i brani, anche abbandonando il vetusto criterio dell’ordine cronologico, e proponendo musiche di più raro ascolto.

 

2. I programmi “monografici”.

 

Sempre più numerosi sono i pianisti che mirano ad una proposta compatta ed organica di brani accomunati da uno stesso elemento, per espungerne tutti gli aspetti stilistici e poetici. Esistono diverse sottocategorie dei programmi monografici, in base all’elemento che si pone al centro della monografia.

 

2.1. Monografie per autori.

 

Il tipo più diffuso di programmi monografici è dedicato ad un singolo autore. Per i pianisti, i compositori “monografabili” più gettonati sono Mozart, Beethoven, Chopin, Schumann, Schubert, Brahms, Liszt, la cui produzione pianistica è tanto vasta da consentire programmi di estrema varietà e di grande interesse. In questi casi, peraltro, è utile che il pianista scelga tra le composizione di quell’autore in modo da tracciare una linea evolutiva all’interno della sua produzione. Ciò è,naturalmente, più agevole con i cicli di esecuzioni integrali (vedi il paragrafo relativo). Per alcuni autori che hanno una limitata produzione pianistica, è inoltre possibile concentrare l’integrale in un singolo concerto monografico: operazione efficace con vari autori del Novecento, quali Goffredo Petrassi, Luigi Dallapiccola, Gyorgy Ligeti, Luciano Berio.

 

2.1.1. Le “integrali”.

 

Una filiazione dei programmi monografici dedicati ad un singolo autore è costituita dai cicli di esecuzioni “integrali” di tutte le opere pianistiche dello stesso compositore, presentate di solito in più concerti ravvicinati (ma a volte anche a distanza di anni, specie per i progetti più impegnativi, come l’integrale delle opere pianistiche di Beethoven o di Schumann). Di solito, il pianista “integralista” mira soprattutto a mantenere un livello esecutivo minimo accettabile, mettendo in conto possibili rischi d’incidenti o approssimazioni, ma non rinunciando ad una visione spesso unitaria e completa dello stile o della poetica di un determinato autore. È evidente, del resto, che affrontando “in toto” la produzione di Beethoven (eventualmente studiando anche le composizioni sinfoniche e cameristiche senza il proprio strumento) si acquisisca una maggiore comprensione e larghezza di vedute, con benèfici effetti anche nell’interpretazione dei brani pianistici.

 

L’uso delle integrali pianistiche è stato senza dubbio incoraggiato dalla diffusione della discografia e si è evoluto ed ampliato parallelamente alle tecniche di registrazione.

 

Il primo esempio concertistico di integrali pianistiche risale, pare, a Ferruccio Busoni, che eseguì le 32 sonate di Beethoven per la prima volta in un ciclo di concerti a Berlino all’inizio del ‘900. Fu invece Arthur Schnabel a incidere le 32 sonate di Beethoven per primo, in una registrazione effettuata a Londra negli anni ’20, e che tuttora rimane tra i massimi riferimenti della discografia beethoveniana.

 

I pianisti integralisti sono peraltro sempre stati legati alla produzione discografica, e spesso grazie ad essa hanno raggiunto una grande fama. Tra i nomi oggi in attività, ricordiamo Alfred Brendel (integrali dei concerti di Mozart, delle sonate di Beethoven, di schuert, dell’opera pianistica di Schumann) Andras Schiff (che ha guadagnato la fama mondiale con la monumentale integrale Decca delle musiche per tastiera di Bach, proseguendo poi con l’integrale delle sonate e concerti di Mozart, delle sonate di schubert, e che certamente raggiungerà ulteriori traguardi altrettanto ambiziosi), Maurizio Pollini (integrale delle 32 sonate e concerti di Beethoven), Vladimir Ashkenazy (Integrale delle opere ianistce di Chopin, Schumann, Beethoven, Rachmaninoff, e delle sonate di Scriabin), Radu Lupu (Sonate di Schubert).

 

L’elenco degli “integralisti” è peraltro molto più lungo, ed include anche quei pianisti che, non esercitando un’intensa attività concertistica, si sono concentrati sulle incisione discografiche, spesso con risutati eccellenti (Leslie Howard, ad esempio, sta portando a termine un’ambiziosissima integrale delle musiche pianistiche di Liszt in più di 100 CD, Pietro Spada ha invece inciso le integrali di Cherubini, Donizetti, Martucci e Sgambati, Marco Sollini ha registrato tutte le opere pianistiche di Leoncavallo, Puccini, Giordani, Mascagni, e sta ultimando l’integrale rossiniana).

 

A tale proposito, sarebbe da distinguere la tendenza a realizzare integrali discografiche dall’uso di proporre integrali nei programmi concertistica, che è ovviamente quella che più ci interessa in questa sede. Ma non è facile separare le due cose: tant’è che spesso i programmi concertistici sono condizionati dall’attività discografica dei pianisti, e che a volte le stesse case discografiche impongono loro di proporre in concerti i brani che hanno inciso recentemente, per promuovere le vendite dei cd. La proposta di esecuzioni integrali è inoltre una efficacie strategia commerciale: costringe le società concertistiche a scritturare il pianista (con il rispettivo lungimirante agente) per più di una serata, spesso prendendo impegni a lunga scadenza, che garantiscono proficue collaborazioni pluriennali, contribuendo a fa radicare la fama e la popolarità di quell’interprete in una determinata città.

 

1.2. Monografie per ambito cronologico.

 

Si tratta di programmi composti da brani scritti in un limitato arco temporale (per esempio, dal 1800 al 1805, o dal 1840 al 1843, o, meglio ancora, un singolo anno: particolarmente proficuo per il pianoforte è stato il 1838!). Ancor meglio se il periodo prescelto coincide con un evento particolare, come la Rivoluzione Francese, la Guerra Franco-Prussiana, il Nazismo. E’ importante, inoltre, che la coscienza interpretativa del pianista approfitti degli accostamenti tra i brani per esaltarne le differenze o per evidenziarne gli elementi comuni, senza peraltro rendere l’approccio interpretativo troppo uniforme.

 

 

1.3. Monografie per genere musicale.

 

In questi casi l’interprete deve stare attento a dare un’adeguata compattezza alla sua scelta, per lasciar emergere con chiarezza l’evoluzione del genere prescelto, e soprattutto evitare che il risultato d’ascolto sia eccessivamente pesante od omogeneo. Hanno dunque un senso storico maggiore i programmi che esplorano l’evoluzione di forme brevi, così da poter presentare un numero ampio di brani dello stesso genere: funziona perfettamente, ad esempio, un programma di soli walzer o di soli notturni (Field, Chopin, Martucci, Fauré, Bizet, Debussy, Ciaikowsky, Scriabin, Rubinstein, etc), a patto di alternare i notturni lenti con altri più movimentati. Più rari, ma altrettanto interessanti, sono i programmi dedicati esclusivamente a generi meno frequentati, come la Ballata (per esempio, Chopin, Brahms, Grieg, Franck), lo Scherzo (Mendelsson, Schubert, Chopin, Martucci, Reger, Sharwenka), la Barcarola (Mendelssohn, Chopin, Fauré, Granados, Moskowsky, Rubinstein), l’Elegia (Liszt, Busoni, Debussy, Paderewsky). Ancora più ricercati sono i programmi dedicati a generi decisamente rari, quali, ad esempio, il Ditirambo (e qui, a quanto mi risulta, abbiamo solo Tomašek e Medtner). Incoscienti, infine, i programmi composti da sole Tarantelle, o da soli Bolero, o da simili pezzi troppo caratterizzati: essi corrispondono (come osservò Piero Rattalino) al menù di un pranzo soltanto con canditi o frutta secca!

 

1.4. Altri tipi di monografie.

 

Sono pressoché infiniti i criteri che possono riunire in un programma monografico i brani più disparati. Spesso accade dunque di ascoltare musiche apparentemente lontane, ma accomunate da determinati parametri armonici, melodici, ritmici, formali, o più esplicitamente legati dall’appartenenza allo stesso stile, o semplicemente dalla vicinanza delle rispettive tonalità. Andando oltre in questa direzione, è ancora possibile accostare musiche in base a comunanze di elementi criptici (come ad esempio, tutti i brani basti sul nome B.A.C.H.), di temi meta-musicali (affinità con correnti pittoriche, filosofiche o letterarie) o extra-musicali (come l’acqua, il fuoco, il viaggio, il vino) o addirittura di elementi enigmistici o numerici, completamente slegati dai contenuti musicali (pezzi con lo stesso numero d’opera, o composti nello stesso luogo, o di autori il cui nome comincia con la stessa lettera: Bach, Beethoven, Brahms, Berio, Britten, oppure Cage, Crumb, Cowell, e…chi più ne ha più ne metta!).

 

Come negli altri casi, non basta evidentemente contare su una singola affinità dei vari brani (specie se questa è slegata dai contenuti squisitamente musicali) per essere sicuri di aver composto un programma organico e convincente.

 

3. I programmi “comparativi”.

 

Una categoria complementare (ma non necessariamente “opposta”) a quella dei programmi monografici è costituita da quelli “comparativi”: si tratta di programmi di recital (e conseguentemente, più raramente, discografici) costruiti in modo da alternare musiche appartenenti a stili, autori o mondi poetici lontani, eppure in qualche modo accomunate da determinati elementi. L’intento è evidentemente di stimolare una percezione nuova dei brani proposti, grazie all’ascolto ravvicinato di mondi sonori differenti. È, del resto, normale che anche una figura architettonica o un film appaiano in forme diverse, a seconda della situazione emotiva o fisiologica in cui lo spettatore si trova. Così accade anche per la musica: quasi mai il pubblico si trova in un utopico stato di verginità d’ascolto. Anzi, ogni singolo ascoltatore porta con sé il proprio background e la propria sensibilità, che influisce notevolmente sui risultati della percezione musicale. a qui ha origine il successo dei programmi cosiddetti “crossover”, la cui migliore trasposizione discografica è rappresentata dalla filosofia dei dischi della ECM. Un ottimo esempio è il Cd del pianista Werner Bärtschi (ECM 1377):

 

Mozart: Fantasia K475

 

Scelsi: Quattro Illustrazioni

 

Pärt: Für Alina

 

Mozart: Adagio K540

 

Busoni: Toccata

 

Mozart: Sonata K333

 

 

 

Con i programmi comparativi è così possibile proporre brani di difficile ascolto (per esempio di alcuni autori contemporanei), sottolineandone i legami con la tradizione preesistente e le suggestioni emotive, così da renderli “digeribili” anche per un pubblico di non “addetti ai lavori”. Io personalmente utilizzo spesso programmi comparativi, ad esempio alternando Bach, Dallapiccola e Petrassi, o brani di Chopin con altri contemporanei, o ancora accostando musiche dodecafoniche a brani di Bach, Mozart, Beethoven, profeticamente premonitori della dodecafonia. Gli esiti sono molto lusinghieri, anche per quanto riguarda la mia stessa interpretazione: essa risulta particolarmente fresca ed innovativa, tenendomi lontano dal rischio di un’esecuzione di routine.

 

Conclusioni.

 

Al di là di queste categorizzazioni schematiche, esistono delle semplici regole, dettate principalmente dal buon gusto (e dal buon senso) di chi costruisce un programma di recital, così che esso non risulti sbilanciato, o troppo pesante, o troppo omogeneo per l’ascoltatore. La tonalità di ogni brano influisce sulla percezione dei brani precedenti e successivi: presentare un concerto con tutti i brani nella stessa tonalità rischia di essere una cattiva idea: come una casa arredata soltanto con oggetti blu! Le tonalità esprimono interessanti attrazioni armoniche, per cui questa potenzialità può essere sfruttata per creare una particolare tensione tra i diversi brani in programma.

 

Il paragone di Rattalino con il menu del ristorante, infine, è utile per rendersi conto dell’equilibrio che un programma deve avere: ad esempio, un concerto con la Sonata “Hammerklavier” di Beethoven e la Sonata in si minore di Liszt corrisponde ad un menù con una bistecca alla Fiorentina di 400 grammi, seguita da un altro analogo piatto di carne della stessa mole: la conseguenza sarà una difficile e travagliata digestione, specie per il “piatto” servito per secondo!

 

E’ efficace, al contrario, un programma con un solo pezzo forte (il piatto principale), affiancato da altri brani che ben si sposano ad esso, e che ne esaltino il valore, anche attraverso contrasti di sapore: proprio come un buon “antipasto” ed un contorno appropriato.

 

Ed il dessert? Anche quello va scelto con attenzione: un “bis” può rendere il programma precedentemente ascoltato molto più bello nel ricordo dell’ascoltatore, ma, se scelto male, può rendere indigesto tutto il pranzo!

 

Roberto Prosseda

Fonte: http://www.ilcorrieremusicale.it/come-scegliere-il-programma-di-un-recital/

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