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Scrive Vinay in “Come si analizza un testo musicale”, una considerazione che mi preme riportare:

 

Siamo in presenza di una irreversibile afasia delle corde raziocinanti che si riflette anche nel (e modifica il) rapporto tra l'interprete e il testo da interpretare che, in virtù del vuoto metodologico favorito dal generalizzato clima di indifferenza e di servile silenzio nei confronti degli abusi di regime, si trasforma da organismo vitale degno di essere accuratamente indagato a più livelli in oggetto sostitutivo delle celebri macchie di Rorschach, consentendo a chiunque di dare libero sfogo alle proprio pulsioni esistenziali e di contrabbandarle in termini di rutilanti prodotti analitici da esibire nei consessi assembleari o sui periodici di propaganda gestiti dalle gerarchie burocratiche di ogni tipo e calibro.

 

Un comportamento schizofrenico di questo tipo ha un senso solo se inquadrato nel progetto di gerarchizzazione fondato sul principio di Orwell, secondo cui “Ignoranza è Forza”, inteso a generare passività e conformismo. In quest'ottica la cosiddetta “scienza severa” altro non è se non il biglietto d'ingresso in una gerarchia in cui le possibilità di emergere sono determinate dal successo commerciale derivante dagli abusi perpetrati a danno dei testi. Il messaggio è chiaro: sulla musica non si ragione, perché la musica è fascinazione, evocazione di emozioni che pertengono alla sfera vitale di un privato indicibile. Chi vuole capire la musica può solo attingere ai racconti che narrano degli struggimenti che questa provoca in “orecchia” addestrate e che dalle “orecchia” vanno direttamente al cuore, senza inciampare nei meandri di un'attività mentale qualsiasi che, trascinandola nella melma di un terrorizzante metalinguaggio, ne rovinerebbe l'incanto.

 

Questa tendenza (deriva) a vivere l'arte a mo' di rotocalco rosa, come contenitore di tutte le paturnie esistenziali del fantomatico artista che, proprio in luce del fatto che sono sue, private, ecc, pretende la sospensione di qualsivoglia critica (non parlo di giudizio) sulla sua opera, perché è sua, è il suo sentire, alla gente piace, ecc; ecco, tutto questo lo sottolinea anche Deleuze, alludendo al fatto che la diretta conseguenza di questo sistema di pensiero è la pericolosa asserzione che siamo tutti poeti.

Siccome tempo fa, in questo forum, si era molto dibattuta la legittimità (secondo me sacrosanta) di distinguere - e identificare - lo spessore di una certa composizione (e interpretazione) piuttosto che di un'altra, ecco, questa di Vinay (chiamiamola razionale-analitica) e quella di Deleuze (chiamiamola storica e socio-culturale) mi paiono due visioni che potrebbero fornire un certo strumento di discrimine per filtrare i contenuti di ciò che si ha sottomano, non meno che per compiere - da parte degli interpreti - anche una certa autocritica sulla leggerezza con cui - spesso - si affrontano dei testi musicali. Tutto questo, lo dico per inciso, mi trova d'accordo senza voler negare qualsivoglia forma di spontaneità o frivolité (per dirla con il Bertolucci di Stealing Beauty) a cui ogni artista - nella misura che più propriamente gli si confà - è chiamato a rispondere.

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