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"Ma il fatto che Ravel consideri questo pezzo [il Bolero] con una certa degnazione non autorizza gli altri a prenderlo alla leggera. E bisogna che tutti capiscano che non si scherza col suo tempo. Quando Toscanini lo dirige a modo suo, a una velocità doppia e accerelando, dopo il concerto Ravel gli fa una gelida visita. Non è il mio tempo, osserva. Toscanini si gira verso di lui allungando ancor più il già lungo viso e corrugando il frontone che gli funge da fronte. Quando lo eseguo rispettando il suo tempo, dice, non fa nessun effetto...lei non capisce niente della sua musica".

 

Appena letto. Jean Echenoz, Ravel, Adelphi 2006.


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Quello di Echenov su Ravel è un romanzo sulla distanza, sul distacco.

Almeno l'impressione avuta nel leggerlo è stata questa. L'ossessione dell'ordine delle cose (quotidiane), quasi una compulsione, per Ravel forse equivale alla creazione di un altro mondo funzionante solo con le regole della sua "compulsione". Forse è anche per questo che Ravel critica Toscanini; oltre alle considerazioni musicali, cioè, io ci leggo quest'accento personale e psicologico.


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E qui Toscanini toppò alla grande. Senza neanche la scusante di non conoscere come andava suonata, essendo Ravel suo contemporaneo...


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E qui Toscanini toppò alla grande. Senza neanche la scusante di non conoscere come andava suonata, essendo Ravel suo contemporaneo...

 

Ovvio che il salto è successivo. La domanda di base è questa: è il compositore l'unico depositario dei significati e dei ciriteri intepretativi della sua opera? Al di là del fatto che il compositore esprima apertamente la sua idea e dica come va fatto, è sempre sicuro che egli possieda immancabilmente la miglior lettura della sua musica? Ogni compositore è il miglior interprete della sua opera? Rispondere nettamente sì o no mi sembra un atteggiamento da bar, ma viene sicuramente spontaneo schierarsi da una parte o dall'altra.

Per me la riposta va cercata in un luogo centrale che tocca entrambe le sponde.


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Quello di Echenov su Ravel è un romanzo sulla distanza, sul distacco.

Almeno l'impressione avuta nel leggerlo è stata questa. L'ossessione dell'ordine delle cose (quotidiane), quasi una compulsione, per Ravel forse equivale alla creazione di un altro mondo funzionante solo con le regole della sua "compulsione". Forse è anche per questo che Ravel critica Toscanini; oltre alle considerazioni musicali, cioè, io ci leggo quest'accento personale e psicologico.

 

Interessante. Da leggere sicuramente.


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Verissimo Giulio, la mia risposta era riferita principalmente al caso Toscanini-Ravel raccontato.

D'altra parte tutta la discussione sull'interpretazione del barocco, ad esempio, la dice lunga sull'importanza dell'argomento: l'interprete quando è grande, sincero, può fare quel che vuole senza paura, perchè nella sua onestà intellettuale ci sarà sempre il rispetto per l'esecutore; se cambierà qualcosa lo farà perchè ci crede assolutamente e sente che non potrebbe essere diversamente, e suonare non può che essere una specie di sinonimo di interpretare a mio giudizio.

Mi spaventa però, in questo discorso, il dilettantismo e il pressapochismo di chi si finge interprete solo per arrivare a fare cose che altrimenti non potrebbe mai fare per chiari limiti tecnici.

Si cammina sul filo


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Certo che per dare dell'incompetente a quel sommo cesellatore che era Ravel, uno che su alcune composizioni ci ha lavorato per ANNI, ci va una bella faccia tosta!

 

L'ego degli interpreti, a volte, rasenta la follia...d'altronde, Toscanini era fatto così...


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Scontro fra titani...

Mi trovo d'accordo con Giulio: in media stat virtus.

L'importante è, però, la coerenza con se stessi miscelata alla volontà dell'autore; connubio imprescindibile.

 

Permettetemi una digressione, ma forse neanche tanto. Mi viene in mente una considerazione sull'Adagio del Concierto de Aranjuez. La principale cellula tematica, affidata prima al corno inglese e successivamente alla chitarra, ritmicamente scritta con due biscrome ed una croma col punto, da quanti interpreti è pedissequamente eseguita così? Si tende in maniera "naturale" a dilatarla per rendere questa melodia più struggente, malinconica, sofferente, quasi fosse scontato, insita nell'interpretazione medesima; eppure Rodrigo stesso, nonostante in partitura indichi "cantabile", che io ricordi, in un video con Pepe Romero la eseguiva al pianoforte così come l'aveva scritta, ribaltandone il concetto.

Ritornando al topic, chi aveva ragione, Toscanini o Ravel?

Tutti e due e nessuno dei due.

 

Giovanni


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Scontro fra titani...

 

Ritornando al topic, chi aveva ragione, Toscanini o Ravel?

Tutti e due e nessuno dei due.

 

Giovanni

 

Avevano evidentemente ragione tutti e due. Ragioni diverse. Ravel aveva concepito il Bolero per la grande danzatrice Ida Rubinstein, e l'aveva immaginato in funzione coreutica, pensando ai tempi che la danza avrebbe richiesto per permettere alla famosa étoile di plasmare le sue figure e i suoi passi. A questo stadio della creazione dell'opera, il compositore era ben lungi dall'immaginare che quel pezzo "utilitaristico", nei confronti del quale egli non smise mai di manifestare il suo distacco, sarebbe diventato invece un brano sinfonico, al quale direttori e orchestre avrebbero aspirato indipendentemente dalla sua destinazione primigenia.

E allora risulta valida la lezione toscaniniana che, tra l'altro, è poi diventata il modello della maggior parte delle esecuzioni successive, alcune delle quali, mantenendo lo stacco del direttore italiano, avrebbero "calcato" ancora di più l'escursione dinamica, rendendo il pezzo davvero infernale. Ravel si sentì dire chiaro e tondo da Toscanini - in modo brutale, com'era tipico del maestro italiano - che nel "Bolero" c'era una potenzialità sinfonica che solo con quel tempo avrebbe potuto manifestarsi. Eseguendo il pezzo al tempo di Ravel, ma senza Ida Rubinstein in scena, il risultato sarebbe stato debole: e questo Ravel non lo sapeva, perché era un esecutore mediocre, pianista debole nella tecnica e direttore privo di gesto e di polso. A ciascuno il suo mestiere...

 

dralig


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la coerenza con se stessi miscelata alla volontà dell'autore; connubio imprescindibile.

 

Parole sante, nel mio piccolo mi trovo ad approvare questa linea di pensiero. L'interprete deve saper intervenire allo scopo di esaltare (e non ribaltare) le intenzioni del compositore, ma attraverso scelte, mezzi e criteri appartenenti al suo bagaglio espressivo.

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