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...capisco benissimo Alfredo e sono d'accordo solo in parte con il giudizio dato da Gilardino. E' indubbio che dobbiamo "sforzarci di cogliere il significato e il valore delle opere collocandole nel quadro storico e culturale in cui hanno avuto origine"...ma la necessità storiografica non sempre è il fondamento dell'espressione di un giudizio di valore. Tutti siamo nella storia e tutti abbiamo il diritto di viverla e interpretarla per ciò che siamo ma topolino rimane topolino e Thomas Mann rimane Thomas Mann. E'auspicabile che si colga la differenza nel modo di rappresentare la profondità dell'uomo nel suo esserci nel mondo. Harris non sarà mai un Ravel che pur era nelle possibilità del nostro di Linares. Casella ricorda Segovia per la ciaccona non per Torroba.

 

Nell'affermare che la conoscenza storica è imprescindibile nel giudicare le opere, non ho implicato - e spero che nessuno lo abbia supposto - che è l'unica conoscenza necessaria: esiste ovviamente anche l'analisi. Storici ed analisti sembrano oggi alquanto distanti nell'esercizio della critica, ma chiaro che i due saperi concorrono nella formazione del giudizio con uguale efficacia.

 

Casella dovrebbe ricordare Segovia anche perché questi gli chiese di comporre per chitarra, ma lui (Casella) non lo fece. Gli promise addirittura un Concerto! Se è vero che Segovia perdette parecchie occasioni - e sono stato, credo, il primo a muovergliene pubblicamente rimprovero, in sede storica - dobbiamo anche ricordare i treni che egli cercò di far passare per la stazione della chitarra, e che passarono senza fermarsi: Casella,si, e anche Pizzetti. E altri...

 

dralig

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A questo punto vorrei precisare che la mia critica alle Variazioni di Harris era circostanziata al lascito segoviano.

Mettendola a confronto con i lavori di altri compositori che lavorarono per Segovia non mi sono potuto esimere dal ritenerla debole.

E' chiaro che nel mare magnum di quella letteratura, il livello qualitativo non può essere costante...Segovia teneva una quantità impressionante di concerti e lasciò nel baule lavori ben più significativi.


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A questo punto vorrei precisare che la mia critica alle Variazioni di Harris era circostanziata al lascito segoviano.

Mettendola a confronto con i lavori di altri compositori che lavorarono per Segovia non mi sono potuto esimere dal ritenerla debole.

E' chiaro che nel mare magnum di quella letteratura, il livello qualitativo non può essere costante...Segovia teneva una quantità impressionante di concerti e lasciò nel baule lavori ben più significativi.

 

Non vorrei spingermi troppo oltre, ma io credo - ne ho più di un motivo - che, nelle scelte di repertorio novecentesco del Segovia anni Sessanta e oltre, non abbia giocato soltanto la restrizione dei tempi di studio (causata dall'immane carico di concerti e dai relativi viaggi), ma anche la sua - non sempre tacita - polemica nei riguardi della nuova musica. Scegliere di rinnovare Castelnuovo-Tedesco (Sonata, Capriccio, Tarantella) con Castelnuovo-Tedesco (Platero y yo), Moreno-Torroba (Sonatina, Piezas caracteristicas) con Moreno-Torroba (Castillos de Espana), poteva essere e sembrare una soluzione di comodo (stili già assimilati, etc.); non così, invece, potevano essere spiegate le scelte di autori nuovi e di opere nuove: come e perché Segovia rifiutasse la nuova musica risulta chiarissimo dal tipo di nuove proposte che egli avanzò, non solo in un'area qualitativamente garantita, qual era quella della "Suite Compostelana" di Mompou, ma anche, con spregiudicatezza, patrocinando lavoretti quali la "English Suite" di Duarte. Rimproverare Boulez di aver scritto musica "inutile" e, nello stesso tempo, registrare i pezzetti della Maria Esteban de Valera andava al di là di ogni limite, significava rivendicare, nei confronti del repertorio, un arbitrio totale, assoluto, e il diritto di ostentarne le conseguenze. Può sembrare un paradosso, ma io credo che, se non fosse stato offuscato dalla sua reiezione nei riguardi della nuova musica, Segovia avrebbe scelto, nel mare magnum del secondo Novecento, composizioni meno periclitanti e più sostanziose di quelle che portò al successo. Vediamo però che nemmeno il suo patrocinio è valso a innalzare la "English Suite" al di là del successo stagionale...Oggi ben pochi la ricordano.

 

dralig


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Sono d'accordo. C'è da dire in ogni caso che la cultura musicale americana, per lo meno quella "accademica", abbracciò incondizionatamente i dettami tecnici (non ideologici) di certo serialismo (Babbit, Carter...) portandolo alle estreme conseguenze e con riusultati musicali molto più interessanti di quelli europei...come dire, tra Harris e Carter scelse il primo, esplicitando, credo, non tanto una decisione estetica ma la strada del reazionariato per motivi sostanzialmente polemici ... da una tale intelligenza era lecito aspettarsi molto di più

 

Da quello che ho potuto comprendere studiando l'artista e, inevitabilmente, anche il carattere della persona, credo che alla base di tutto il comportamente del musicista ci sia stata la storia della sua formazione. Nell'infanzia, oltre a frequentare le scuole elementari, Segovia imparò - probabilissimamente fin dalla più tenera età - a suonare la chitarra flamenca. La rivelazione della chitarra classica gli giunse più tardi, credo intorno ai dieci-dodici anni, per mano di un chitarrista granadino che gli suonò alcuni Preludi di Tarrega. L'imprinting della sua lingua musicale fu dunque prima modale e poi tonale, ma insisterei sulla natura modale delle falsetas del cante jondo: fu probabilmente a quel fondamento, a quella pietra miliare, che egli rapportò per tutta la vita la sua percezione della musica, e anche l'affinamento successivo - se pur guidato da un intelletto sia musicale che generale di primissimo ordine - non giunse mai a disancorare, nella sua mente, i fenomeni musicali dalla nozione gravitazionale della scala frigia e, più tardi, del modo maggiore-minore. Non fu questione, quindi, di "che cosa", ma di "come". Ritengo - in scala estremamente riduzionistica, ma sostanzialmente vera - che tutto il suo far musica con la chitarra sia stato generato a partire da due o tre modalità del cante jondo: tutto il resto, compreso Bach, è stato da lui percepito ed elaborato a partire da quella radice.

 

Che si sia trattato di una radice, di un nucleo originario inalienabile, lo si vede anche dai suoi gusti artistici fuori della musica: a Picasso, preferì sempre Santiago Rusinol, e a Lorca - con il quale ebbe familiarità negli anni giovanili trascorsi a Granada - preferì sempre Jiménez che, a differenza di Lorca, non sconfinava nel surrealismo e rimaneva ancorato a temi rurali, sia pure con potere di elaborazione metafisica.

 

La sua polemica con gli allievi di Tarrega fu originata dalla consapevolezza della sua superiorità intellettuale e musicale, non da una radicale diversità di indole: mi riferisco naturalmente a Llobet che, in fatto di gusti musicali, era probabilmente persino più aperto e meno conservatore di Segovia. Il fatto è che era un pigro, un ipocondriaco rassegnato, mentre Segovia era un vincitore nato.

 

dralig


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grazie

molto interessanti i riferimenti al flamenco, Rusinol e Jiménez

di che natura furono le polemiche con gli allievi di Tarrega?

 

Andò a far visita nel loro covo, a Valencia, quando era ancora sconosciuto (intorno al 1914, credo), e l'incontro fu segnato dalla diffidenza dei chierichetti di Tarrega e dal suo disprezzo nei loro confronti. Invitato a suonare, invece di cercare di guadagnare le loro simpatie con il "Capricho Arabe", scavò un solco tra lui e loro, suonando la seconda delle "Deux Arabesques" di Debussy: come dire, voi siete dei rottami, e io sono l'uomo dell'avvenire.

 

E' curioso il constatare come, in seguito, egli non abbia potuto evitare il formarsi, intorno a sé, di una parrocchia non certo migliore di quella tarreghiana, che lui aveva demolito. Ma sapeva bene con chi aveva che fare. Un aneddoto "personale": nel 1970, a fine settembre, suonò alle Settimane Musicali di Stresa. Io andai al concerto. Arrivai nel pomeriggio, insieme a due suoi devoti - da lui favoriti con largizioni di vario genere. Vollero andare a fargli visita prima del concerto, all'Hotel Borromeo e, nonostante io recalcitrassi, mi ci trascinarono. Ci fece aspettare due ore nella hall (stava studiando) e poi ci fece salire. All'ingresso della sua suite, io mi trattenni sulla soglia, e i due famuli gli si avvicinarono. Li trattò affabilmente, ma con distacco. Dopo cinque, buoni minuti di scodinzolamenti, finalmente uno dei due si decise a indicargli (la sua vista era ormai debolissima) il sottoscritto, in prudente attesa sulla soglia. Credeva di presentargli uno sconosciuto, e gli disse: "Maestro, è venuto a salutarLa anche Angelo Gilardino, un giovane chitarrista italiano...". Al che Segovia mi fece cenno di avvicinarmi e, dopo avermi stretto la mano con un confidenziale "Que tal, Angelo?", si volse al "presentatore" e, toccandosi la fronte con l'indice e con il medio giunti di piatto, gli disse "El hombre inteligente, miralo en la frente". Io sentii il pavimento mancarmi sotto i piedi, perché l'interessato aveva l'attaccatura dei capelli a due centimentri dalle sopracciglia. Pensai a una gaffe, ma non era così: li trattava per quello che erano.

 

dralig


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