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Interpretazione e Filologia


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Ospite Attademo

Cari Amici,

mi permetto di riportare la discussione su un tema che è stato trattato all'inizio:

 

Fino a che punto è lecito (esteticamente) da parte di un esecutore forzare il testo scritto (ho fatto riferimento agli aspetti agogici ma considerazioni analoghe possono essere fatte su tutti i parametri musicali: timbro, dinamica, ecc...) in nome della libertà interpretativa?

 

Forse non esiste una risposta, ma tra "violentatori" e filologi fondamentalisti dovrà pur esserci una terza via...

 

In questa domanda secondo me sono posti diversi problemi.

La questione della libertà interpretativa - non solo in musica - è il centro stesso della nostra cultura. Si tratta in prima battuta di fare una chiara distinzione fra libertà, che implica un campo di azione predeterminato, delle regole o delle limitazioni (che però sono poste dall'attore stesso), e l'anarchia - ovvero deriva interpretativa - che invece non ha nessun principio di coerenza alla base del suo agire.

Riferendoci all'interpretazione musicale, in questo ultimo caso l'elemento esecutivo non diventa gesto musicale perché manca del suo carattere "necessario".

 

Questi limiti che però noi stessi ci diamo non sono mai endogeni ma sono determinati (anche) dalla dimensione storica in cui operiamo e dalla storicità che il testo che interpretiamo si porta dietro. Per cui ogni discorso che vede la filologia come puro fine conduce all'aporia inevitabilmente, dato che sarebbe impossibile ricostruire o approssimarsi alle condizioni in cui l'opera interpretata è stata pensata perché l'opera stessa non è oggi più quellla che era allora ed è con quella di oggi che noi siamo chiamati a confrontarci.

Stesso discorso vale per la nostra condizione storica - di chitartisti del 2006, in questo caso. E dunque è vero che il coro è il modello di una polifonia, ma è anche vero che gli strumenti che suoniamo non sono un coro e quindi l'arpeggio è una nuova possibilità che lo strumento offre all'interprete per interpretare una polifonia. E sta all'interprete decidere, ma non inseguendo modelli di riferimento che non hanno nulla a che fare con quello che oggi stiamo facendo (per chiarire: altro esempio del genere potrebbe essere il tentativo far riecheggiare nelle chitarra il clavicembalo quando si suonano Scarlatti ecc.).

 

Se suoniamo Albeniz, non dovremmo pensare di inseguire il modello pianistico o ancora peggio di poter accedere in modo privilegiato al nucleo chitarristico che i suoi pezzi nascondono: se mai, e qui il citato Grondona ha fatto una bellissima operazione, dovremmo cercare di restituire una visione estetica che ha a che fare con la chitarra, in questo caso quella di Llobet: la trascrizione diventa dunque uno specchio di chi trascrive e di come trascrive e non tanto dell'autore trascritto.

Mi aspetto lamentele,

Ciao

L

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Cari Amici,

mi permetto di riportare la discussione su un tema che è stato trattato all'inizio:

 

Fino a che punto è lecito (esteticamente) da parte di un esecutore forzare il testo scritto (ho fatto riferimento agli aspetti agogici ma considerazioni analoghe possono essere fatte su tutti i parametri musicali: timbro, dinamica, ecc...) in nome della libertà interpretativa?

 

Forse non esiste una risposta, ma tra "violentatori" e filologi fondamentalisti dovrà pur esserci una terza via...

 

In questa domanda secondo me sono posti diversi problemi.

La questione della libertà interpretativa - non solo in musica - è il centro stesso della nostra cultura. Si tratta in prima battuta di fare una chiara distinzione fra libertà, che implica un campo di azione predeterminato, delle regole o delle limitazioni (che però sono poste dall'attore stesso), e l'anarchia - ovvero deriva interpretativa - che invece non ha nessun principio di coerenza alla base del suo agire.

Riferendoci all'interpretazione musicale, in questo ultimo caso l'elemento esecutivo non diventa gesto musicale perché manca del suo carattere "necessario".

 

Questi limiti che però noi stessi ci diamo non sono mai endogeni ma sono determinati (anche) dalla dimensione storica in cui operiamo e dalla storicità che il testo che interpretiamo si porta dietro. Per cui ogni discorso che vede la filologia come puro fine conduce all'aporia inevitabilmente, dato che sarebbe impossibile ricostruire o approssimarsi alle condizioni in cui l'opera interpretata è stata pensata perché l'opera stessa non è oggi più quellla che era allora ed è con quella di oggi che noi siamo chiamati a confrontarci.

Stesso discorso vale per la nostra condizione storica - di chitartisti del 2006, in questo caso. E dunque è vero che il coro è il modello di una polifonia, ma è anche vero che gli strumenti che suoniamo non sono un coro e quindi l'arpeggio è una nuova possibilità che lo strumento offre all'interprete per interpretare una polifonia. E sta all'interprete decidere, ma non inseguendo modelli di riferimento che non hanno nulla a che fare con quello che oggi stiamo facendo (per chiarire: altro esempio del genere potrebbe essere il tentativo far riecheggiare nelle chitarra il clavicembalo quando si suonano Scarlatti ecc.).

 

Se suoniamo Albeniz, non dovremmo pensare di inseguire il modello pianistico o ancora peggio di poter accedere in modo privilegiato al nucleo chitarristico che i suoi pezzi nascondono: se mai, e qui il citato Grondona ha fatto una bellissima operazione, dovremmo cercare di restituire una visione estetica che ha a che fare con la chitarra, in questo caso quella di Llobet: la trascrizione diventa dunque uno specchio di chi trascrive e di come trascrive e non tanto dell'autore trascritto.

Mi aspetto lamentele,

Ciao

L

Certo Luigi

nessuna lamentela,

(a proposito come stai? tutto bene?... spero che anche tu non abbia avuto un vuoto di memoria :D nei miei confronti.. visto che i miei saluti sono andati nel vuoto nei confronti di alcuni che forse...hanno dimenticato di conoscermi..) non fa nulla...

 

veniamo alle cose importanti.. quando dici:

 

<>

 

infatti, ma io intendevo che il coro, l'organo o qualsiasi altro strumento non guasta se esiste nella mente dell'esecutore, ai fini di una maggiore comprensione.

 

L'esempio dei bicordi arpeggiati, certo non è un reato ma non è neache carino ascoltare Bach come fosse Tarrega (anche se la gente lo preferisce...)

 

cmq è chiudo, all'inizio io e Andrea avevamo proposto il titolo Interpretazione e..."manierismi" ..per capirci, perchè si parlava di alcune deviazioni in nome di "alta interpretazione".. quando forse non sempre è cosi...

buon lavoro :)

ciao

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La questione della libertà interpretativa - non solo in musica - è il centro stesso della nostra cultura. Si tratta in prima battuta di fare una chiara distinzione fra libertà, che implica un campo di azione predeterminato, delle regole o delle limitazioni (che però sono poste dall'attore stesso), e l'anarchia - ovvero deriva interpretativa - che invece non ha nessun principio di coerenza alla base del suo agire.

Riferendoci all'interpretazione musicale, in questo ultimo caso l'elemento esecutivo non diventa gesto musicale perché manca del suo carattere "necessario".

 

Questi limiti che però noi stessi ci diamo non sono mai endogeni ma sono determinati (anche) dalla dimensione storica in cui operiamo e dalla storicità che il testo che interpretiamo si porta dietro. Per cui ogni discorso che vede la filologia come puro fine conduce all'aporia inevitabilmente, dato che sarebbe impossibile ricostruire o approssimarsi alle condizioni in cui l'opera interpretata è stata pensata perché l'opera stessa non è oggi più quellla che era allora ed è con quella di oggi che noi siamo chiamati a confrontarci.

 

Concordo totalmente; è quanto (in maniera un po' maldestra) avevo implicitamente suggerito con la domanda iniziale.

 

Come però ha giustamente rilevato Marcello, queste considerazioni avevano preso spunto da una discussione su alcune interpretazioni che personalmente considero poco convincenti.

A tale proposito mi pare molto appropriato l'intervento di Zigante nell'altro topic da me aperto, riguardante proprio quelli che definivo "vezzi interpretativi".

 

Mi rendo conto che non sempre è facile individuare parametri oggettivamente validi per tutti, ma questo è anche ciò che rende creativa l'arte dell'interpretazione musicale.

 

am

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Stesso discorso vale per la nostra condizione storica - di chitartisti del 2006, in questo caso. E dunque è vero che il coro è il modello di una polifonia, ma è anche vero che gli strumenti che suoniamo non sono un coro e quindi l'arpeggio è una nuova possibilità che lo strumento offre all'interprete per interpretare una polifonia. E sta all'interprete decidere, ma non inseguendo modelli di riferimento che non hanno nulla a che fare con quello che oggi stiamo facendo (per chiarire: altro esempio del genere potrebbe essere il tentativo far riecheggiare nelle chitarra il clavicembalo quando si suonano Scarlatti ecc.).

 

Se suoniamo Albeniz, non dovremmo pensare di inseguire il modello pianistico o ancora peggio di poter accedere in modo privilegiato al nucleo chitarristico che i suoi pezzi nascondono: se mai, e qui il citato Grondona ha fatto una bellissima operazione, dovremmo cercare di restituire una visione estetica che ha a che fare con la chitarra, in questo caso quella di Llobet: la trascrizione diventa dunque uno specchio di chi trascrive e di come trascrive e non tanto dell'autore trascritto.

Mi aspetto lamentele,

Ciao

L

 

Rassegnarsi ed accettare modelli strumentali autoreferenzianti, a mio modestissimo avviso, è prova di autolesionismo. Nella mia formazione ho considerato i modelli extrachitarristici una grande ricchezza. Io non ho dubbi. Nello lo scegliere tra un arpeggio di un chitarrista e la chiarezza polifonica di un coro propendo per la seconda. Cerco di ottenere la stessa chiarezza polifonica anche sul mio strumento lavorando sull'indipendenza timbrica e dinamica delle singole voci, ad esempio. Cerco i miei riferimenti in quelle esecuzioni che hanno fatto "tradizione" a prescindere che esse non siano state fatte da chitarristi... ascoltando e riascoltando Kirkpatrick o Ross prima di incidere Scarlatti o Demus prima di suonare Mozart. Sta poi all' intelligenza dello strumentista colto riuscire a rendere chitarristico un modello "culturale" extrachitarristico. Insomma, per quanto mi riguarda la musica suona "Musica" a prescindere dallo strumento che si suona.

 

 

In una delle molte cene avute con Alexander Mullenbach (direttore della SommerAkademie di Salisburgo, eccellente compositore e pianista) ci siamo intrattenuti anche sul rapporto tra libertà esecutiva e rigore testuale. Riporto "a braccio" la sua tesi (che io ho adottato completamente).

 

"Un esecutore dovrebbe cercare la verità della musica. La bellezza è di questa verità solo una parte. Ogni esecutore sarà in grado di ricostruire quel livello di verità del quale ha conoscenza o percezione. In questo senso lo studio quotidiano è il campo su cui si confrontano immaginazione e rigore".

 

 

Molto cordialmente

 

Catemario

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Se suoniamo Albeniz, non dovremmo pensare di inseguire il modello pianistico ..........

.........la trascrizione diventa dunque uno specchio di chi trascrive e di come trascrive e non tanto dell'autore trascritto.

Mi aspetto lamentele,

Ciao

L

 

…il quale sa che il trascrittore non è un copista, ma un interprete e ch’è sempre l’oggi a inquadrare il passato che, proprio secondo le prospettive diverse, assume connotati nuovi e mutevoli.

(dalle note di copertina del CD "From Spain to South America", Guitart Quartet, a cura di R.Cresti, scrittore, musicista, musicologo, curatore dell'Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei.)

 

Nessuna lamentela, siamo in perfetta sintonia.

L

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Ospite Attademo

Cari Amici - quando parlo di amici mi riferisco includo anche te, Marcello, perché pensi di no?-

meno male, meno lamentele di quelle che pensavo.

 

Siamo comunque sulla stessa linea, mi sembra, preciso solamente che ovviamente non intendevo con il mio discorso, che voleva essere un po' più complesso, riferirmi a un'idiozia come quella che il chitarrista si deve riferire agli interpreti chitarristi. Come sai benissimo, Edoardo, io ho da quando avevo 14 anni i miei riferimenti interpretativi non certo nella storia della chitarra. Inoltre, a mia discolpa, ho anche scritto e curato un libro sull'interpretazione musicale (!): purtroppo ci sono ben pochi modelli nell'ambito della chitarra. Volevo solo dire col mio discorso che la chitarra è il dato (nel senso in cui questa parola assume in ambito ermeneutico - vedi Gadamer) da cui partiamo sia per quanto riguarda la nostra storicità che per quanto riguarda il nostro linguaggio di interpreti.

Saluti a tutti

Luigi

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preciso solamente che ovviamente non intendevo con il mio discorso, che voleva essere un po' più complesso, riferirmi a un'idiozia come quella che il chitarrista si deve riferire agli interpreti chitarristi.

 

La tua affermazione (ma probabilmente io non ho capito bene): "...non inseguendo modelli di riferimento che non hanno nulla a che fare con quello che oggi stiamo facendo (per chiarire: altro esempio del genere potrebbe essere il tentativo far riecheggiare nelle chitarra il clavicembalo quando si suonano Scarlatti ecc.)" mi ha indotto a pensare che stessi proponendo modelli estetici "idiomatici" desunti dallo "strumento" chitarra. L'esempio che hai riportato mi sembrava suggerisse appunto di non riferirsi a modelli clavicembalistici nel caso di Scarlatti, la qual cosa a me sembra autolesionistica.

 

 

Un artista, nella mia immaginazione (citiamo ancora Glenn Golud?), è egli stesso un "ermeneuta". Chiunque voglia fornire canoni "scientifici" che sostituiscano interamente la sensibilità artistica o la "ingabbino" in una scatoletta preconfezionata è (a mio avviso) un folle.

 

Io non intendo rinunciare alla purezza filologica in quanto ricerca; mi propongo piuttosto di usarla per comprendere come i canoni di interpretazione si siano evoluti attraverso i secoli. Il tutto nel tentativo di immedesimazione profonda con la musica che suono. La verità, di cui parlava Mullenbach, passa, a mio modestissimo avviso, anche per la filologia. Almeno quanto passa per il "confronto-dialogo" di socratica memoria e per la fusione degli orizzonti di Gadamer ...

 

 

Vorrei aggiungere una personalissima sensazione. Mi sembra che, negli ultimi vent'anni l'interprete "analfabeta" stia finalmente lasciando posto ad un interprete culturalmente evoluto. Ciononostante, per quanto riguarda il livello culturale di una esecuzione, mi pare che stiamo assistendo ad una sorta di schizofrenia. Ci sono persone estremamente colte che, al momento di trasferire la propria cultura in una esecuzione, non sono in grado di trasformarla in ricchezza strumentale per nulla o solo in minima parte...

 

Cordialmente

 

Catemario

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preciso solamente che ovviamente non intendevo con il mio discorso, che voleva essere un po' più complesso, riferirmi a un'idiozia come quella che il chitarrista si deve riferire agli interpreti chitarristi.

 

La tua affermazione (ma probabilmente io non ho capito bene): "...non inseguendo modelli di riferimento che non hanno nulla a che fare con quello che oggi stiamo facendo (per chiarire: altro esempio del genere potrebbe essere il tentativo far riecheggiare nelle chitarra il clavicembalo quando si suonano Scarlatti ecc.)" mi ha indotto a pensare che stessi proponendo modelli estetici "idiomatici" desunti dallo "strumento" chitarra. L'esempio che hai riportato mi sembrava suggerisse appunto di non riferirsi a modelli clavicembalistici nel caso di Scarlatti, la qual cosa a me sembra autolesionistica.

 

 

Un artista, nella mia immaginazione (citiamo ancora Glenn Golud?), è egli stesso un "ermeneuta". Chiunque voglia fornire canoni "scientifici" che sostituiscano interamente la sensibilità artistica o la "ingabbino" in una scatoletta preconfezionata è (a mio avviso) un folle.

 

Io non intendo rinunciare alla purezza filologica in quanto ricerca; mi propongo piuttosto di usarla per comprendere come i canoni di interpretazione si siano evoluti attraverso i secoli. Il tutto nel tentativo di immedesimazione profonda con la musica che suono. La verità, di cui parlava Mullenbach, passa, a mio modestissimo avviso, anche per la filologia. Almeno quanto passa per il "confronto-dialogo" di socratica memoria e per la fusione degli orizzonti di Gadamer ...

 

 

Vorrei aggiungere una personalissima sensazione. Mi sembra che, negli ultimi vent'anni l'interprete "analfabeta" stia finalmente lasciando posto ad un interprete culturalmente evoluto. Ciononostante, per quanto riguarda il livello culturale di una esecuzione, mi pare che stiamo assistendo ad una sorta di schizofrenia. Ci sono persone estremamente colte che, al momento di trasferire la propria cultura in una esecuzione, non sono in grado di trasformarla in ricchezza strumentale per nulla o solo in minima parte...

 

Cordialmente

 

Catemario

 

 

Si su questo ultimo passo concordo con il Maestro Catemario,

infatti si rischia di assistere ai due estremi, da un lato l'esecuzione "aggressiva" con tutti gli ingredienti sensuali e..

e dall'altra un'estrema razionalizzazione di ogni nota ma che poi...tradotta in "suoni"...?

rischia di esistere solo nella mente di colui che pensa di "pensarla"...(l'esecuzione)...

 

Io, ribadisco, e forse qui Luigi la tua risposta aveva fatto capire anche a me quello che ha detto Catemario, a proposito di una "superiorità" dello strumento chitarra su tutto...nel suo senso idiomatico intendo,

io continuo a pensare spontaneamente ad un coro quando si tratta di polifonia che a un chitarrista ma forse perchè come dicevo già, i modelli che spesso girano sono "troppo" chitarristici" e io tendo a pensare la musica come qualcosa di superiore, sopra tutti gli strumenti nonostante ovviamente essa sia scritta "anche" per gli strumenti, ma a volte (e adesso forse dico una assurdità) proprio il "trasferimento" strumentaledell'interprete è ciò che considero "pericoloso" quando lo strumento tenta di... "emergere",

forse vivo in una altro pianeta, ma mi fido molto di ciò che è scritto sullo spartito (o partitura) e considero sempre un traguardo carpire e tradurre in suoni ciò che già esiste allo stato puro... il farcirlo a volte con qualcosa "di nostro"... se non è almeno elevato al pensiero dell'autore o anche, perchè no, "superiore" in alcuni casi... è decisamente problematico...

spero di essermi spiegato...

 

marcello

 

p.s. ero sicuro Luigi che tu non ti eri dimenticato.. ma mi riferivo a qualche frequentatore che ha dimenticato i lunghi anni trascorsi ... probabilmente ho dato io valore a certe cose...nessun problema,

grazie comunque della tua risposta.

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concordo sulla sensazione...due osservazioni:

1 - l'acculturazione come sinonimo di maggiori informazioni acquisite, non è sinonimo di progresso o evoluzione culturale. Questo è un problema. Cado nel demagogico ma credo sia necessario soffermarsi sui valori di tali conoscenze.

 

2 - Alle persone che non sono in grado di trasferire la propria cultura in una esecuzione bisognerebbe far capire che la vita musicale non è fatta solo di esecuzioni...è fatta di tante belle cose e che l'interprete è solo l'anello di una catena complessa...negli altri campi musicali non credo poi sia differente...è lo specifico della musica ad essere, in questo senso, un vero problema.

 

Quoto tutto Fabio! Sono della tua stessa linea di opinione.

Ecco perchè preferisco non andare a sentire i soliti solisti o musicisti. Sono vittima di un circuito che li costringe a non gustare più il palcoscenico: concerti noiosi da morire e (come detto in precedenza qui su questo forum) sempre uguali e ripetitivi.

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la trascrizione diventa dunque uno specchio di chi trascrive e di come trascrive e non tanto dell'autore trascritto.

Mi aspetto lamentele,

Ciao

L

 

ciaoo Luigi

piacere di riincontrarti virtualmente!!!!!!!

 

io vorrei tanto esprimere una lamentela

 

mhhh....

ora ci penso...a dopo....

 

:lol::lol:

 

Che lamentela?

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