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Angelo Gilardino

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  1. Premesso che una risposta precisa può essere data solo individualmente, esaminando ogni singolo caso, si può dire, in linea generale, che, se i fondamenti della tecnica sono stati assimilati bene nei primi anni di studio (tre o quattro al massimo), non è più necessario studiare le scale, gli arpeggi, le legature, etc., come esercizi indipendenti dalla musica, perché il repertorio contiene tutti i possibili modelli di tecnica, ed è molto più utile e interessante praticarli all'interno del discorso musicale (articolazioni, dinamiche, agogica) che continuare tutta la vita – come diceva Schumann nei suoi precetti ai giovani studenti – a ripetere l'alfabeto. Tuttavia, dopo aver assorbito a fondo i fondamenti della tecnica, ogni esecutore constaterà come si diano tre casi distinti: 1) tecniche che riesce a eseguire con spontaneità e senza il minimo intoppo; 2) tecniche che gli oppongono qualche resistenza; 3) tecniche che gli risultano ostiche o impossibili. A questo punto, converrà all'esecutore forgiarsi degli esercizi personali (con l'aiuto del suo insegnante) per le tecniche del caso n. 2, quelle che non riesce a praticare spontaneamente, ma che possono – se studiate con intelligenza – essere assimilate. Se un chitarrista è bravo negli arpeggi e ha qualche problema nelle legature della mano sinistra, la mezz'ora giornaliera di cui Lei parla potrà essere spesa proficuamente nello studio specifico delle legature (e come studiarle è terapia che può venire prescritta solo dopo una corretta diagnosi). Non sarà il caso di esercitarsi negli arpeggi, bastando per questi rispondere, con la fluidità di cui si dispone, alle richieste dei pezzi del proprio repertorio. Quanto ai casi impossibili, tutti gli esecutori di tutti gli strumenti ne hanno almeno uno e, se sono intelligenti, lo accettano. Dopo dieci anni di studio svolto con una buona impostazione e senza problemi nella quasi totalità dei modelli di scrittura esistenti, se si trova, in un determinato brano, un problema che non è risolvibile in mezz'ora di tentativi, è il caso di rassegnarsi. Sempre in linea generale, si osserva, nell'attività didattica, che gli esecutori che meno abbisognano di esercizi di tecnica meccanica e che meno si imbattono in ostacoli insuperabili, sono quelli che hanno iniziato lo studio dello strumento in età infantile o prepubere - al massimo entro i 12 anni - e che non hanno dovuto modificare successivamente la loro impostazione. Chi incomincia a studiare a 18 o a 20 anni, anche se è dotato, dovrà sempre esercitarsi in alcuni fondamentali, mentre l'ex enfant, anche non necessariamente prodige, non ne avrà alcun bisogno. Contrariamente a quel che in genere si crede - e che si fa spesso - il docente al quale accade di doversi occupare di un allievo che ha problemi di impostazione, ma che, ciò nonostante, è in grado di affrontare il repertorio - sia pure con maggior dispendio di fatica - prima di modificare l'impostazione errata ci pensa due e più volte: smontare un motore che funziona, anche se non è da gran premio, è cosa da fare solo se si è certi che, una volta rimontato, il veicolo ripartirà e funzionerà meglio, e – per quanto sia un fenomeno descrivibile meccanicamente – la tecnica strumentale ingloba aspetti psicologici rilevanti e delicati, che bisogna saper valutare molto attentamente, prima di ordinare demolizioni e ristrutturazioni. dralig
  2. L'asserzione secondo cui la velocità non è necessaria proviene da coloro che non ne dispongono: la volpe e l'uva. Non sono un neurologo, quindi non so rispondere alla sua domanda circa i limiti di velocità insiti nel cervello. Tuttavia, chiunque suoni uno strumento è in grado di verificare quanto segue: la velocità raggiunta nell'esecuzione di una sequenza di note con una determinata diteggiatura non è raggiungibile - da parte dello stesso esecutore - con una diteggiatura diversa. Eppure il cervello è sempre lo stesso. Chiunque trovi nella diteggiatura p.a.m.i il modo migliore per eseguire il cosiddetto "tremolo", constaterà che gli risulta impossibile mantenere la stessa velocità con la diteggiatura p.i.m.a., o con altre: dunque, non è nella fase impulsiva che ha origine la differenza, ma a valle, in qualche segmento della trasmissione del comando al sistema nervoso e da questo all'apparato fisico. Lo studio ben guidato e ben svolto permette di rimuovere, nell'esecuzione "meccanica" dei movimenti, le posture e le azioni che sono di ostacolo o di impedimento. Quindi, sì, è possibile a ciascun esecutore porsi in una condizione di partenza libera da tali "resistenze" (e in questa fase di ricerca dell'assetto giusto per ogni studente l'opera del maestro è fondamentale). Da lì in poi, si manifestano le differenze individuali volute da madre natura, e non c'è studio che tenga. Come esiste un talento musicale (l'orecchio, la memoria, la capacità di immaginare la musica scritta senza ascoltarla e viceversa, l'immaginazione, etc.) esiste anche un talento "tecnico", ci sono i bradipi, i camminatori, i corridori, i velocisti e le saette. Conviene prendersi come si è, e dar retta a Domenico Scarlatti: "vivi felice". ag
  3. La soluzione più rapida e sensata è lasciare che ogni dito faccia quel che gli accade di fare, purché esegua con precisione e velocità tutti i movimenti che gli vengono ordinati dalla mente. Tentare di inibire il movimento di un dito che non partecipa direttamente a una determinata azione è una pretesa sciocca e senza scopo alcuno, se non quello di affermare che si hanno le dita indipendenti. Che cosa sono, nazioni? dralig
  4. Con quali strumenti, scusi? Un diplomato in chitarra, che ha imparato quattro regolette di armonia in un corso biennale con i bassi numerati e poi - miracolo! - senza numeri, con quali criteri analizza una composizione? Fermo restando il suo diritto costituzionale di dire che gli piace o che non gli piace, che cos'altro può responsabilmente aggiungere? Come può giudicare un romanzo o una poesia uno che ha solo imparato a leggere (fino a un certo punto), e non anche a scrivere? Se i chitarristi, ad esempio, fossero in grado, non dico di formulare giudizi di valore, ma anche solo di distinguere le pagine scritte da un compositore che sa il suo mestiere da quelle di un chitarrista che, da un giorno all'altro, si scopre compositore, non vedremmo, nei programmi dei concerti e dei dischi, ricorrere brani "scritti" da analfabeti per analfabeti: eppure, il "repertorio" della chitarra ne è pieno, i cataloghi degli editori pure. dralig
  5. Prima di dedicarmi alla composizione, io sono stato chitarrista militante, e ho quindi una conoscenza diretta dello strumento. Quando compongo, non uso nessun strumento perché mi affido all'audizione interiore, in altre parole immagino i suoni anche se non li ascolto fisicamente, ma ho sempre presente una "chitarra virtuale" e, scrivendo, penso alla diteggiatura. Quando preparo l'edizione di un brano altrui per chitarra, scrivo la diteggiatura a mente, senza bisogno di provarla sullo strumento. Per questo, in linea di principio, non c'è bisogno che gli esecutori apportino dei cambiamenti alle mie composizioni, che risultano perfettamente eseguibili così come sono. Accade però che gli interpreti più dotati trovino diteggiature più ingegnose di quelle che io ho immaginato, e riescano a inventare, sulle stesse note, combinazioni sonore più efficaci: in questo senso, hanno tutto il mio appoggio, e anzi sono io stesso a stimolare questa loro ricerca. Non accetterei invece modifiche alla sostanza musicale di un brano: un conto è togliere una nota da un accordo, o aggiungerla, senza alterarne la specie armonica, un altro conto sarebbe trasformare un accordo in qualcosa di diverso, o modificare il profilo di una voce: questo no, non mi starebbe bene, e a un interprete che si è permesso di farlo - uno solo, una sola volta - ho detto chiaro e tondo di occuparsi di altro. Segovia non suonava musiche scritte per lui da chitarristi, ma solo da compositori non chitarristi. Era quindi inevitabile che, nei loro brani, si trovassero passi ineseguibili oppure ostici e di scarso rendimento sonoro: lui li modificava per renderli scorrevoli e sonori. Qualche volta - con la musica di Ponce - cadde nella tentazione di modificare anche passi che erano suonabilissimi: in lui, c'era un compositore imbavagliato che tentava di "venir fuori", e Ponce, uomo dal carattere mite e devotissimo all'amico chitarrista, non fu mai capace di ribellarsi. Ma io sono certo che qualche volta, potendo, l'avrebbe fatto volentieri. ag
  6. Caro Marcello, se le cose stanno come dici tu - e non ho motivo di contraddirti – cioè, se esiste un repertorio (dei quale tu citi due campioni) seriamente candidato alla sopravvivenza nella posterità, allora la tua domanda riguardo al futuro della chitarra non ha motivo di essere posta: infatti, a garantire "il futuro" di qualsiasi strumento può essere soltanto il suo repertorio (anche il liuto, pur desueto nella pratica per più di due secoli, ha avuto un futuro nel secolo XX, grazie alla musica di Francesco da Milano e di John Dowland). La domanda può essere riformulata – secondo me più propriamente – riguardo al futuro, non della chitarra, ma dei chitarristi. E, se permetti, la mia risposta è: affare loro. AG
  7. Se un buon esecutore, dedicandosi assiduamente alla lettura, riuscirà a formarsi un concetto ben fondato riguardo alle opere che passano sul suo leggio, l'ultima cosa che gli verrà in mente di fare sarà quella di pensare che ne possa esistere una da considerare al disopra di tutte le altre. Quella del pezzo, o dei dieci pezzi, da inviare al futuro non è una scelta musicale, è un gioco di società, e - se posso dirlo senza venir meno al rispetto di chi vi partecipa - dei più inutili. ag
  8. Il giudizio storico sul valore delle composizioni - e delle opere letterarie e di arte - si forma attraverso processi lenti, le cui conclusioni - mai definitive - raramente coincidono con quelle manifestate dai contemporanei. In altre parole, ci vuole tempo e, nel tempo, si forma una visione prospettica alla quale concorrono l'apporto degli interpreti, quello degli studiosi (storici, analisti, biografi) e, naturalmente, i gusti degli ascoltatori. Certamente è possibile distinguere subito, nell'immediatezza del presente, le musiche scritte da compositori che sanno il mestiere da quelle dei dilettanti; e altrettanto certamente le opere candidate alla sopravvivenza presso i posteri non sono tra quelle della seconda categoria. Fino a che gli autori sono in vita, giocano, a favore o contro la musica che scrivono, fattori estranei al giudizio critico: il nome, le passioni suscitate dalla persona dell'autore (non dalla loro musica), le mode. Ma bastano alcuni anni dalla scomparsa di un compositore per assistere a un primo assestamento della sua opera. Per fare un esempio, negli anni Sessanta-Novanta, la musica per chitarra di John W. Duarte era molto in voga, oggi è raro trovare esecutori che la propongono al pubblico; mentre, in compenso, sta diventando sempre più ricorrente la programmazione dei brani (segoviani e non) di Alexandre Tansman. Questi sono solo indizi, ma dicono più di qualcosa... AG
  9. Le modifiche sono state apportate da Segovia tra il 1929 - anno della composizione - e il 1930, anno della pubblicazione. Segovia tuttavia eseguì il brano in pubblico solo nel 1933 o 1934, ed esiste una sua dichiarazione secondo la quale il brano veniva accolto bene solo dagli ascoltatori di lingua tedesca, mentre altrove non era compreso. La sua registrazione (bellissima, è vero) è del 1956 (circa). Nel 1935, Manén realizzò una versione per orchestra intitolata "Divertimento". E' evidente che, nella medesima, non trovano posto le modifiche apportate da Segovia, e che il compositore si attiene alla sua prima versione (anche se, ovviamente, scrivendo per orchestra, la arricchisce di molti dettagli). Per questo motivo, ho ritenuto utile ripubblicare la versione originale, con manoscritto autografo. Il motivo dei cambiamenti apportati da Segovia va ricercato nel suo, personalissimo stile.
  10. Niente di tutto ciò. "Cruces de Mayo" è un fantasia per chitarra e orchestra basata sì sul contrappunto - come quasi tutta la musica dell'autore in questione - ma non ha nulla che vedere con la fuga. Niente armonizzazione per quarte. Solo l'epilogo è in stile modale. AG
  11. Si può provare - tempo permettendo, e considerando il fatto che piccole domande talvolta esigono risposte complesse. ag
  12. Dopo alcuni anni di sperimentazione, ritengo motivata la decisione di includere, nel corso di perfezionamento annuale che tengo a Vercelli per la Scuola Comunale di Musica "F.A. Vallotti" anche un indirizzo intitolato "corso di composizione chitarristica" riservato ai diplomati di chitarra che intendono studiare gli aspetti peculiari della composizione per il loro strumento. Non potrò aumentare il numero degli allievi, che rimarrà limitato a nove. Tuttavia, tra i nuovi iscritti non ci saranno soltanto concertisti, ma anche aspiranti compositori di musiche per e con chitarra. AG
  13. In quel periodo, Msrio Pabè sicuramente lavorava nell'atelier Monzino (fatto appurato con documentazione), ma è impossibile sapere quale fosse esattamente la distrubuzione del lavoro tra i vari dipendenti della ditta addetti alla costruzione delle chitarre classiche. Nelle fotografie, non si nota alcuna somiglianza con le chitarre firmate dal maestro di Turate dal 1961 in poi. AG
  14. Scritta nel 1990 per il grande chitarrista britannico Julian Bream, la Sonata di Leo Brouwer è articolata in tre movimenti, ma non si iscrive in nessuna linea neoclassica e spiega invece i caratteri stilistici tipici del l’arte del maestro cubano, in questo caso rivolta sì alla tradizione europea, ma non per osservarne i canoni formali, bensì per intavolare una spiritosa parodia di alcuni aspetti della retorica sonatistica, dal barocco spagnolo e italiano al tardo romanticismo, esposti al colorito abbaglio della luce caraibica. Il primo tempo, intitolato Fandangos y Boleros , si apre con un ampio e variegato Preámbulo, le cui rapide e fantasiose figurazioni sembrano voler stabilire il clima di un discorso ornato come un poema mariniano. Questa pomposa introduzione sfocia in una danza il cui metro principale spiega il titolo del movimento. Il nucleo di questa sezione è un semplicissimo intervallo di seconda maggiore, attorno al quale il compositore costruisce a espansione una rigogliosa decorazione, alternando le scansioni del ritmo portante a fitte fioriture. Lo sviluppo è molto ampio, e si allarga in una sorta di invenzione polifonica a tre voci, caratterizzata dal ritmo e dal profilo della voce centrale. La ripresa del tema di danza è tutt’altro che simmetrica, perché conduce a nuovi sviluppi, e trova un’imprevedibile esito nella coda, che inizia annunciando il primo tema della Sesta Sinfonia di Beethoven, spezzato dall’inserimento a cuneo di frammenti del tema di danza: la dicitura “Beethoven visita al Padre Soler” spiega la misteriosa apparizione beethoveniana e l’ ispirazione di tutto il brano, che è una rivisitazione della musica del grande clavicembalista spagnolo Antonio Soler, allievo di Domenico Scarlatti. Non ci è dato di conoscere, nella musica di Scriabin, un brano che possa aver costituito il modello specifico della Sarabanda de Scriabin che forma il movimento centra le della Sonata di Brouwer. Forse, il compositore ha inteso riferirsi in generale, al clima fervoroso e arroventato della musica pianistica scriabiniana. Il brano inizia con una trama ritmico-armonica lieve e sottile sulla quale si disegna il motivo tematico quattro semicrome. Terminata l’aerea introduzione, inizia il vero e proprio omaggio a Scriabin, cioè una sezione polifonica a tre voci, che si allarga nella metrica di 4/4, collocando il motivo e le sue espansioni nella voce interna. Il ristabilimento del tempo della Sarabanda ha luogo nella sezione conclusiva, che riprende gli elementi del l’introduzione e li conduce a dissolvenza. Il terzo tempo si presenta con un titolo – La Toccata de Pasquini– che ricorda lo stile compositivo del maestro pistoiese, in cui la parte inferiore, in ritmo ternario, disegna l’armonia e la parte superiore schizza alcune cellule binarie nel registro acuto, evocando il canto degli uccelli (inevitabile pensare alla pasquiniana Toccata con lo Scherzo del Cucco ). Il brano è una sorta di moto perpetuo che si concede un solo re spiro, dove viene riconvocata brevemente la Sarabanda, ma solo per riprendere con un Da capo l’entusiastica Toccata e concluderla in gloria. Leo Brouwer (1939): Sonata I - Fandangos y boleros II - Sarabanda de Scriabin III - La toccata de Pasquini View full article on repertoire
  15. Anche se, per i caratteri della sua ispirazione e del suo stile, il compositore castigliano Antonio José Martinez Palacios , avrebbe benissimo potuto beneficiare del favore di Segovia, il suo unico pezzo chitarristico, la Sonata para guitarra del 1933, non giunse mai nelle mani del famoso concertista, e anzi rimase inedito per più di mezzo secolo. Fu solo nel 1990, infatti, che l’autore di queste note ricevette degli eredi del compositore, nato a Burgos nel 1902, e morto nella stessa città nel 1936, il mandato di pubblicare la composizione, il cui manoscritto faceva parte di un lascito, custodito in famiglia, comprendente tutta l’opera di Antonio José, salvo alcuni pezzi per pianoforte e per coro, pubblicati a Madrid e a Parigi durante la breve esistenza del musicista. L’oscuro destino che aveva condotto il giovane maestro – hombre bueno , come egli stesso si era definito in uno scritto autobiografico, e certamente incolpevole – dinanzi al plotone d’esecuzione nell’ottobre del 1936, nel divampare di furori vendicativi coperti con le false motivazioni della guerra civile, continuò a opprimere la sua opera anche nei decenni successivi. Il chitarrista Regino Sainz de la Maza, concittadino di Antonio José, per il quale la Sonata para guitarra era stata scritta, dopo la guerra non pubblicò la composizione, anche se disponeva di una collana editoriale per chitarra. A partire dagli anni Ottanta, alcuni musicologi castigliani – primo fra tutti, il compositore Alejandro Yagüe, di Burgos – ripropongono all’attenzione del mondo musica le l’opera di Antonio José, e l’iniziativa si af- fianca a un più vasto progetto, coltivato dagli esponenti della nuova musica spagnola, di conoscenza e di valorizzazione degli autori della “generazione del ‘27”. Quella di Antonio José è senza dubbio la più importante tra le sonate per chitarra scritte nell’epoca segoviana. Essa rivela tutte le matrici dello stile del giovane, e già ma - turo, compositore: un’ispirazione che muove sì dalla tradizione nazionale e dalla musica popolare, ma che se ne libera nell’atto di definirsi come musica d’arte e di pretendere alla depurata individualità di un autentico pensiero musicale. Chiari, sullo sfondo, e per nulla ingombranti, sono gl’influssi di Falla e del suo andalucismo univer sal (che in José aspirava a declinarsi in un “castillanismo”, egualmente “universal”) da una parte, e di Maurice Ravel – il Ravel della Sonatina , di Ma mère l’oye , della Pavane– dall’altra. L’ Allegro moderato del primo tempo è in Mi minore, ma il testo non espone il Fa diesis in chiave. Spontaneo e perentorio, il primo tema ha quasi il carattere di un impromptu. Il secondo tema, in Re minore, apre un’isola di statica contemplazione – e qui Antonio José si dimostra perfettamente consapevole di quella sospensione del tempo cronologico che, magicamente attuata nella musica di Debussy, discendeva da Bergson, da Proust e dall’arte dei pittori impressionisti, e a lui giungeva per via delle alchimie raveliane: siamo nella provincia spagnola e nell’anno 1933, si badi bene! Poco più di un episodio è la sezione centrale, mentre la ripresa non si limita a rileggere i due temi trasponendo il secondo, ma ne opera rilevanti modifiche e trasformazioni. La melanconia ironica del Minueto (forma ternaria, tonalità latente di Do maggiore) ci ricorda Ravel forse ancora più scopertamente della Pavana triste , che è capace, oltre che di delicate evocazioni, anche di infiammarsi, nella sezione centrale, in una intensa perorazione, prima di tornare al tenero motivo iniziale. Costruito in forma di rondò, il Final (Allegro con brio) alterna e oppone la scalpitante invenzione in semicrome del ritornello (dove il rasgueado, che agita freneticamente gli accordi, non ricorda per nulla la chitarra popolare o flamenca, e libera invece fantasmi romantici) a frammentarie riprese di sezioni del primo tempo, la cui riapparizione in questo nuovo clima musicale ha un effetto doppio e straniante, sogno di sogno, memoria di memoria. Anche il ritrovamento della tonalità ha un sapore arcano e sfuggente: il modo maggiore conclusivo ci appare, pur nel suo fragore, più dubbioso e dubitabile che mai... Negli anni trascorsi dalla sua pubblicazione, la Sonata para guitarra di Antonio José ha assommato esecuzioni, tali e tante da formare una sorta di risarcimento alla memoria dello sfortunato musicista. Per quanto, dai suoi scritti, risulti chiara e serenamente vissuta la consapevolezza di sé e del proprio valore, è improbabile che egli, componendo la Sonata pura guitarra, pensasse di poter saltare a piè pari il suo tempo e di raggiungere i posteri. A noi, invece, è stato riservato il piacere di una sorprendente scoperta, al quale si accompagna il rimpianto per la musica che, con la scomparsa della fuggevole meteora di Antonio José, abbiamo irrimediabilmente perduto. View full article on repertoire
  16. Raffaele, qui si stava parlando dei testi dei Preludios di Ponce. Rivolgere domande riguardo a ciò che non si sa è utile e giusto. Emettere giudizi su questioni della cui sostanza si è palesemente ignari è trastullo da perditempo. Sui due maestri - Ponce e Segovia - e sui loro rapporti - esiste una bibliografia piuttosto nutrita e facilmente accessibile, che include, tra l'altro, il loro carteggio: chiunque voglia affermare qualunque cosa al riguardo deve aver studiato questi documenti. In mancanza di queste basi, come dicevo a Ermanno, stiamo perdendo del tempo. dralig
  17. Ci sono solo due edizioni della raccolta, una in commercio, pubblicata da Tecla Editions, a cura di Miguel Alcazar, e un'altra non più in commercio, pubblicata da Conaculta, Mexico, sempre a cura di Alcazar. Questa seconda edizione dei Preludios fa parte del volume delle opere complete. L'edizione Tecla include anche una diteggiatura, quella Conaculta non ha diteggiatura - in pratica, è una copiatura a stampa dei manoscritti. I quali restano comunque la fonte più sicura e attendibile. L'edizione Schott curata da Segovia smonta l'architettura dell'opera, eliminandone - senza ragione alcuna - la metà, e scompaginando l'ordine di successione; nel Preludi rimasti, gli interventi del revisore sono pesanti (il preludio scritto da Ponce in si bemolle minore è trasposto, Dio sa perché, in si minore) e, in certi punti, Segovia non corregge, ma compone. Nulla da eccepire alla decisione di adottare questa revisione, ma si abbia allora l'onestà di dichiarare che si tratta di opere di due coautori, Ponce e Segovia. Non esistono diteggiature "ufficiali" di Segovia. Esistono quelle pubblicate e quelle adottate nelle sue registrazioni. Poiché le seconde sono spesso posteriori alle edizioni, l'ufficialità delle prime è puramente immaginaria. E' possibile ricostruire - almeno parzialmente - le diteggiature sulla base dell'ascolto delle registrazioni. Una ricca serie di trascrizioni inedite di Andrés Segovia è stata pubblicata da Bèrben (Obras ineditas - vol. 3 - Transcripciones) avendo come fonte soltanto i dischi del maestro: i curatori dell'edizione (Phillip de Fremery e Angelo Gilardino) hanno desunto dalle registrazioni non soltanto le note, ma anche i numeri delle corde. dralig
  18. Una lettura accurata dei manoscritti permette di comprendere come Ponce abbia concepito, con la serie dei "24 Preludios", un'opera unitaria, basata sulla sua percezione delle proprietà "ambientali" di ciascuna delle ventiquattro tonalità, e realizzata con una lucida, efficacissima tracciatura di un itinerario atto a creare affinità, varianti e contrasti, come se si trattasse della successione delle diverse sezioni di uno stesso pezzo. Alla luce di tale constatazione, è quindi auspicabile che gli interpreti (a meno che si tratti di studenti costretti dai loro insegnanti oppure di dilettanti) eseguano e registrino l'intera raccolta. L'hanno già fatto lodevolmente alcuni concertisti, mi auguro che diventi una consuetudine, la stessa che induce i pianisti a eseguire unitariamente il ciclo del Preludi di Chopin. I brani sono perfettamente eseguibili così come Ponce li ha scritti, non c'è bisogno di alcuna manipolazione e, quanto alle diteggiature, ovviamente nessun interprete capace di elaborare un pensiero musicale proprio adotterà mai quelle di un altro interprete: la diteggiatura è la manualità dell'immaginazione, e non si dà, in nessuna arte, il caso di due artisti che immaginano la stessa cosa. Incidentalmente - e senza malizia - domando ai fedeli delle diteggiature segoviane: quali? Quelle scritte nelle sue edizioni o quelle che adoperava suonando? Basta ascoltare un disco del maestro con le musiche sul leggio per constatare che era il primo a non fare uso delle proprie diteggiature... dralig
  19. Come ogni lettore-ascoltatore di musica, Lei non è una scultura marmorea, è una persona con la sua storia. Quello che oggi Le pare buono, con il tempo forse potrà risultarLe meno buono o addirittura scadente, perché le Sue capacità di lettura, di comprensione, di apprezzamento, cresceranno insieme alle Sue esperienze di lettura e di ascolto. La maggioranza - non piccola - dei chitarristi preferisce il repertorio di intrattenimento naif alla musica scritta in modo originale ed elaborato: inutile lanciare anatemi, alcuni di loro si svilupperanno, altri rimarranno dove si trovano ora. I maestri degni di tal nome fanno in modo che i loro allievi abbiano l'accesso più ampio e informato al repertorio, e assecondano, in ogni scolaro, la formazione di capacità di lettura e di analisi. Non consegnano giudizi critici - al massimo, se richiesti, opinano - ma pongono gli studenti in condizione di formare da sé il loro giudizio. Alcuni miei ex allievi suonano musica che io reputo vuota e mal scritta: ascrivo al mio attivo di insegnante l'averli aiutati a identificarsi con quei brani, anche se questi a me risultano rozzi e banali. Altri suonano le composizioni che io reputo più alte e meglio elaborate del repertorio: il mio merito, nell'averli condotti alle soglie di quelle musiche, non è diverso o maggiore di quello che ho acquisito insegnando l'arte della lettura a chi oggi suona pezzi da televisione. Quindi, ringrazi il chitarrista italiano che Le ha dato il saggio consiglio di leggere più che può: mettere la musica sul leggio e cercare di capirne qualcosa è l'esercizio più proficuo che possa fare. Si fidi oggi di quello che oggi pensa: domani, chissà... dralig
  20. Ciascuna delle "Greeting Cards" ha un titolo che ne indica il carattere, la poetica, lo stile. Una sola è intitolata "Estudio". dralig
  21. Innanzitutto è necessario inquadrare la composizione dal punto di vista storico. Quando fu scritta, quali ne furono le origini, etc. A tale scopo, occorre leggere la corrispondenza intercorsa tra il compositore e il suo committente, Andrés Segovia. Le lettere sono pubblicate: "The Segovia-Ponce Letters", Editions Orphée, Columbus, 1998. La lettura di questo carteggio ci guida a comprendere anche alcuni aspetti formali della versione pubblicata con la revisione di Segovia: non si tratta di dettagli, ma di un sostanziale riassetto dell'esposizione del primo tempo. Risulterà necessario, allora, confrontarla con il manoscritto originale o con la versione (conforme all'originale) pubblicata (da Schott) a cura di Tilman Hoppstock. Si constaterà in tal modo com'era il pezzo prima che Segovia (come risulta dalla corrispondenza) chiedesse a Ponce delle modifiche nell'esposizione (Hoppstock sembra non aver considerato il fatto che tali varianti furono apportate non da Segovia, ma dall'autore, sebbene a richiesta del committente). Non c'è, nella Sonata di Ponce, un evidente e specifico riferimento allo stile sonatistico di Sor - salvo lo schema del primo tempo, che peraltro non è proprio del maestro catalano, ma comune agli autori di tutta un'epoca. L'analisi formale rivelerà facilmente come, fin dall'enunciato tematico, la Sonata ponciana sia "altra cosa". Il solo, allusivo riferimento a Sor è contenuto nel Rondò del quarto movimento, nel quale Ponce forgia un tema affine a quello dell'Allegro della Sonata op. 25 di Sor: ma è un'allusione, non una citazione esplicita. Per il resto, Ponce scrive una Sonata nello stile classico viennese, con un impianto armonico molto più vario e articolato di quello delle Sonate di Sor, e si tratta quindi di un omaggio a un'epoca di poco precedente quella in cui Sor visse e operò. Questo non impedì a Segovia di presentare, inizialmente, tre tempi della Sonata come opera originale di Sor, come si evince dalla corrispondenza citata (e come ho riportato nel mio libro "Andrés Segovia, l'uomo, l'artista". dralig
  22. L'elenco delle libertà che si prende l'esecutore in questione descrive "che cosa" fa. Quel che conta, invece, non è il "che cosa", ma il "come". E di questo "come" non si può dare (e non serve leggere) una descrizione, bisogna ascoltare. dralig
  23. Il compositore che pubblica le proprie opere sa di consegnarle all'ignoto. E - se le sue musiche riscuotono l'attenzione di molti interpreti - sa di doversi aspettare di tutto: youtube e similari depositeranno sulla soglia di casa sua esecuzioni di ogni genere - ottime, decenti, mediocri e purtroppo anche scadenti o addirittura orrende: tutto ciò fa parte del gioco nel quale egli ha scelto di entrare pubblicando le proprie composizioni, e non gli rimane che accettare la variegata evidenza del bene e del male di questo mondo riflessa anche nel piccolo miroir della sua opera. Ciò premesso in linea di principio, occorre poi distinguere tra le esecuzioni e quelli che Lei chiama stravolgimenti. Se un esecutore suona male quello che un compositore ha scritto, questi dovrà - come ho detto - sopportare e magari fare buon viso a cattiva sorte. Ma se un esecutore vuole "stravolgere" un pezzo nel senso di modificarne i parametri strutturali (note, ritmo, forma) o effettuarne un arrangiamento, allora deve richiedere il permesso del compositore (o degli aventi diritto sull'opera sua: eredi, editori, etc.), altrimenti commette un abuso illegale, indipendentemente dalla qualità - anche "geniale" - del suo intervento. Le faccio un caso: l'erede di Igor Stravinskij accetta - previo richiesta - l'esecuzione pubblica di arrangiamenti e trascrizioni delle opere del compositore, ma non permette la pubblicazione di versioni diverse dall'originale, anche se, in certi casi, ha ammesso che erano validissime. Si dà però il caso di eredi che non soltanto permettono, ma richiedono l'intervento di un compositore su una determinata opera del loro congiunto non più in vita: chi scrive questo messaggio ha completato - su richiesta degli eredi - un concerto per chitarra e orchestra di Alexandre Tansman, effettuandone l'orchestrazione, che l'autore non aveva compiuto; e, più recentemente, ha trasformato una "Sonatina" per chitarra sola dello stesso autore in un "Concertino" per chitarra e orchestra. Se si tratta di compositori defunti da più di 70 anni, il campo è libero, chiunque può "stravolgere" qualunque brano, e ne renderà conto soltanto a San Pietro: quaggiù, nessuno gli potrà dire nulla, né "bravo" né "per favore, smettila". dralig
  24. Non credo che possa esistere un interprete "troppo bravo nel focalizzare il sentire del compositore". A partire dal testo musicale - che è una rappresentazione simbolica dei parametri della musica - e dalla conoscenza dei correlativi storici, l'interprete può forgiare un modello, e questo sarà la base della sua interpretazione. Il compositore non è in grado di fissare un solo modello intepretativo. Tutti i maggiori compositori sono stati e sono aperti all'apporto dell'interpretazione come atto cognitivo della musica che hanno scritto, non come rivelazione di un assoluto che non esiste, né nella mente del compositore né altrove. Toscanini a Ravel, che lamentava uno stacco di tempo troppo rapido del "Bolero": "Lei non capisce niente della musica che ha scritto". dralig
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