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La domanda che pone è quella più giusta: paura di che cosa?

 

La paura è conseguenza dell'esibizionismo. Ripeto, chi fa musica non ha alcun timore di suonare in pubblico. E chi ha timore di suonare in pubblico dovrebbe rinunciare a farlo. Ne ha molte buone ragioni.

 

La paura di una esibizione in pubblico arriva dalla necessità di 'dimostrare' qualcosa a degli estranei che evidentemente non si è in grado di dimostrare o per il quale non si è pronti.

 

Un musicista (artista, in senso lato) è per antonomasia un esibizionista, nel senso positivo e sano del termine: 'Ho da dire qualcosa. State zitti per favore e statemi a sentire.'

E quelli stanno zitti sul serio e solo lì che ascoltano. E adesso?

 

Chi ha molto da dire lo fa con naturalezza ed entusiasmo e non vede l'ora di esprimersi e, naturalmente, mettersi in discussione.

Chi trema per paura di sbagliare le scale o un passaggio difficile è ben lontano dal voler comunicare arte al pubblico: vuole comunicare solo ed esclusivamente il proprio ego.

 

Se suonare in pubblico (ad un certo livello di preparazione, beninteso) non è un totale piacere bisognerebbe non suonare in pubblico. Mi sembra ovvio.

 

Mio padre dice spesso in merito una frase che poco a poco ho fatto mia: 'Sono sicuro che il medico non gli ha prescritto un antibiotico e un concerto da tenere entro la fine del mese.'

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Inviato
Personalmente, ritengo di essere un valido musicista soprattutto tra le pareti domestiche e molto meno in pubblico,

 

A me risultano ben altre informazioni, Francesco.


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Un'uomo senza paure, è un uomo evidentemente molto sicuro di sé, che non ha alcun dubbio o ansia prima di salire su un palco.

Ecco, io cerco accuratamente di evitare di andarli ad ascoltare perché ormai, secondo me, non v'è in loro più alcuno spazio alle emozioni. Costoro hanno raggiunto la loro pace dei sensi, non gioiscono e non soffrono, sono emotivamente impassibili ed un pubblico di cento, mille o diecimila persone, per loro non fa alcuna differenza. Hanno abbattuto la soglia del dolore nel tentativo ossessivo di sconfiggere la più grande delle loro paure, cioè la loro piena consapevolezza di non avere, in fondo, nulla di interessante da dire. Il loro vuoto esistenziale, ce lo comunicano ostentando una sicurezza tanto spavalda quanto effimera. Queste persone sono le più deboli ed insicure fra tutte, perchè rivestono la propria mancanza di idee, di una veste bella e lucente, che assomiglia tanto ad un involucro di una scatola vuota.

 

Questo è un altro discorso.

Non si parla di 'ripetitori di note' (sono quelli che cita lei, Franceco) ma di normali esseri umani come me e come lei che hanno timore o meno di salire su un palcoscenico.

Non vi è alcun nesso con l'incapacità comunicativa e l'assenza di tremori da panico.

L'una può verificarsi senza l'altra.


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Questo è un altro discorso.

Non si parla di 'ripetitori di note' (sono quelli che cita lei, Franceco) ma di normali esseri umani come me e come lei che hanno timore o meno di salire su un palcoscenico.

Non vi è alcun nesso con l'incapacità comunicativa e l'assenza di tremori da panico.

L'una può verificarsi senza l'altra.

Ti prego Cristiano, diamoci del tu! :D


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Inviato
Questo è un altro discorso.

Non si parla di 'ripetitori di note' (sono quelli che cita lei, Franceco) ma di normali esseri umani come me e come lei che hanno timore o meno di salire su un palcoscenico.

Non vi è alcun nesso con l'incapacità comunicativa e l'assenza di tremori da panico.

L'una può verificarsi senza l'altra.

Ti prego Cristiano, diamoci del tu! :D

 

Affare fatto! Nel dubbio uso sempre il lei per una forma di rispetto, tutto qui.

Non mi dare dell'artereoscleritico se tra qualche mese, in qualche futuro post ti ridarò del lei.


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Se il suonare in pubblico è un atto dimostrativo di capacità e di poteri speciali e punta all'affermazione della propria persona è inevitabile che sia accompagnato dalla paura: infatti, l'evenienza di non poter dimostrare in una determinata occasione la propria eccellenza è realistica, e qualora si verifichi dà luogo a un sentimento di sconfitta e di frustrazione.

 

E' chiaro che tutto ciò è insensato. Bisogna quindi formare in sé una capacità di comprensione della musica come fenomeno che trascende l'importanza delle persone che la fanno (compositori, interpreti, ascoltatori) e disporsi all'esecuzione con animo ripulito dalla vanità. Solo questo atteggiamento rende sereni e capaci di accettare le variabili che possono dar luogo a oscillazioni nel rendimento.

 

Uso dire che chi ha paura di suonare in pubblico fa bene ad averla, e che probabilmente non ne ha abbastanza: con questo intendo dire che un atteggiamento radicalmente sbagliato nel far musica non può non far male, e che non serve lottare contro la paura. Chi ce l'ha, cerca qualcosa che la musica non può dare.

 

Chi fa musica, non ha paura.

 

dralig

 

Anche la mia esperienza, formata in altro settore, porta alle stesse conclusioni del M° Gilardino. Anzi, penso che la validità della sua tesi vada ben oltre il caso concreto, da cui muove.

Direi, più in generale, parafrasando le sue parole: se "il relazionarsi" in pubblico è un atto dimostrativo della propria persona, è inevitabile che sia accompagnato dalla paura.

Quando ho smesso di voler dimostrare chi sono, ho incominciato a divertirmi con il "mio" pubblico e, ora, non mi fa paura!


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io vi posso dire che nonostante sia salito su un palco per suonare un modesto numero di volte l'emozione è sempre rimasta dalla prima all'ultima esecuzione .l'emozione che provo prima e durante l'esecuzione è particolare e riserva sia aspetti positivi quanto negativi.Uno positivo ad esempio è il fatto che sono pieno di adrenalina che esce all'interno delle esecuzioni attraverso una forte energia espressiva .Uno negativo che purtroppo non riesco ad eliminare è di carattere somatico mi iniziano a tremare le mani e per quanto mentalmente possa essere lucido per questo problema perdo il 30per cento rispetto alla reale esecuzione.Chiedo ai più esperti del forum di dare un consiglio riguardo tale problema.

 

Quando si suona in pubblico, il cervello risponde come se fossimo in pericolo di vita. Questo stress genera un "push adrenalinico" che fa sì che abbiamo una percezione alterata (acuita) del mondo che ci circonda. Siamo più reattivi, il tempo sembra scorra più lentamente, la capacità di concentrazione aumenta ed il cervello "pretende" di prendere il controllo della sitazione. L'adrenalina è però anche il maggiore responsabile del tremore, sudore, tachicardia etc. Se non si conoscono gli effetti del push, la paura innescata dai sintomi del push stesso rischia di generare un effetto "loop". Sono sotto stress, il fisico reagisce con l'adrenalina, il mio cervello lo interpreta come se io fossi in pericolo ulteriore e quindi aumenta la soglia di attenzione, io ho paura, altra adrenalina, ulteriore attenzione, maggiori sintomi etc fino al blocco ed al panico (o viceversa). Le mani tremano, io mi difendo irrigidendole, l'adrenalina le fa tremare di più e così via fino al blocco. La necessità di controllare i sintomi tralaltro provoca una specie di "stordimento" (sempre l'adrenalina!) che porta ai vuoti di memoria.

 

Cerchiamo di fare un po' d'ordine. La paura (e l'adrenalina) non "provocano" i difetti di una esecuzione, li amplificano solamente. Sbaglieremo quel passaggio che non sapevamo fare o che "riusciva" una volta su dieci (ma è sufficiente un margine d'errore del 10% per avere la certezza di sbagliarlo in concerto). Appiattiremo l'esecuzione di quei brani di cui non avevamo studiato bene l'interpretazione, avremo vuoti di memoria laddove non è stata curata con attenzione la parte mnemonica. Ora, risolvere tutti i problemi di una esecuzione non è impresa da poco. Per questo motivo i grandi concertisti sono pochi... Bisogna curare ogni singolo aspetto. La tecnica, la precisione, l'interpretazione, la costanza, l'energia, i sentimenti. Serve quindi un training mirato ad ottenere come risultato una esecuzione "a prova di panico". Non solo. Serve un metodo di studio che ci permetta di essere pronti nell'ora e luogo del concerto. Non altrove nè altrimenti. La scusante "a casa mi riesce meglio" la possono usare solo gli studenti. Nella bocca di un concertista non suona ridicola, è patetica!

 

E' stato scritto molto su come dominare le proprie paure, sul training mentale, sui metodi di memorizzazione, sulla respirazione, tecniche di rilassamento etc.. Tutte cose utilissime che potrebbero risolvere (come anche no) le vostre paure. Voglio qui condividere un semplice consiglio dato dal mio amico Yair Kless (grande violinista) ad un suo allievo durante una lezione al Mozarteum: "quando un brano viene bene dieci volte a lezione, sei pronto per un corso magistrale, quando viene bene dieci volte ad un corso magistrale sei pronto per un piccolo concerto, quando viene bene dieci volte in un piccolo concerto sei pronto per un concerto "medio", poi dopo dieci concerti medi per uno grande, dopo dieci grandi per un concorso, dopo dieci concorsi per un disco..." Potrebbe sembrare una facezia, non lo è. A mio avviso, restituisce la dimensione reale della quantità di lavoro che un musicista, degno di definirsi tale, umilmente dedica ai brani che vuole eseguire in concerto. Solo l'umiltà ed il lavoro ben fatto (con un Maestro che ci insegni come raggiungere gli obiettivi) portano alla sicurezza che non è ostentazione del sè ma condivisione della bellezza di cui un musicista si nutre ogni giorno e che, per la maggioranza del pubblico che viene ad ascoltare, è un "miracolo".

 

 

Dio mi scampi, però, dal diventare un professionista, cioè in uno che passa da una sala da concerto all'altra senza più rendersene conto e senza provare gioia e sofferenza ogni volta che fa un concerto.

Preferisco mille volte le mie paure alla gelida indifferenza di un musicista "professionista".

 

Dio scampi tutti i professionisti degni di tale nome dal diventare come tu dici, Francesco! Io non ne conosco di artisti di alto livello che siano come dici tu. Però mi fido delle tue parole, magari esistono ...

 

Un minimo di tensione, i giorni prima di un concerto, specialmente quelli importanti, è assolutamente normale. Anche per un grande artista. Ai miei allievi inglesi dico "The more you care the more you're scared!" (Più ti sta a cuore, più hai paura - in un inglese volutamente approssimativo che però rende talmente bene l'idea da averlo fatto diventare un motto). Aver fatto un buon lavoro, comunque, ti da quel minimo di sicurezza che non ti obbliga a dover controllare la paura o le mani ma ti permette di concentrarti unicamente sulla musica.

 

Cordialmente

 

EC


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Poiché ho introdotto io il termine paura, e in conseguenza delle cose dette, ritengo di dover aggiungere qualche piccola precisazione.

 

Un'uomo senza paure, è un uomo evidentemente molto sicuro di sé, che non ha alcun dubbio o ansia prima di salire su un palco.

 

Ecco, io cerco accuratamente di evitare di andarli ad ascoltare perché ormai, secondo me, non v'è in loro più alcuno spazio alle emozioni.

 

 

Sta nascendo un equivoco, caro Francesco, Vediamo se è possibile dissiparlo. Sembrerebbe, da quello che scrivi, che la paura sia il vettore indispensabile delle emozioni che l'interprete deve trasmettere al pubblico e che, in assenza di paura, non ci sia alcuna trasmissione di valori e di contenuti - quelli proprii e specifici dell'arte, che generano emozione. Non è così. La musica è quello che è, i suoi messaggi transitano benissimo anche senza paura - anzi, la paura è un grave ostacolo che offusca la chiarezza del messaggio. La ricerca dell'origine della paura conduce sempre alla scoperta del fatto che chi suona intende (più o meno consciamente) proiettare non soltanto e non principalmente la musica, ma un'immagine di sé alla quale nel profondo non crede, e che quindi ha bisogno di dimostrare continuamente (prima a se stesso e poi agli altri): la paura scaturisce da questa incertezza, cioè dall'ipotesi paventata che la dimostrazione fallisca e che l'immagine non corrisponda a ciò a cui l'interprete agogna. Faccio un esempio riferendomi a un assunto fondamentale della celebrazione della Messa cristiana (non occorre essere credenti o praticanti per comprendere il concetto). Essa si basa sul valore della transustanziazione, ossia sul fatto che il pane e il vino dell'eucarestia diventano il corpo e il sangue di Cristo. Il credente, sia esso colui che celebra la Messa, cioè il sacerdote, o colui che vi assiste, sa che questo fenomeno - la transustanziazione - si verifica per volontà del Creatore, e non ha alcuna ragione di aver paura che, nella singola circostanza, esso non abbia luogo, fallisca: ciò indipendentemente dal modo con cui la cerimonia liturgica viene "recitata". Il sacerdote non ha alcuna paura: questo non significa che il messaggio potentissimo non venga trasmesso e che il miracolo non abbia ogni volta puntualmente luogo. Se il sacerdote avesse paura, non trasmetterebbe nulla di più di quello che è proprio dell'evento della transustanziazione: renderebbe soltanto più difficile la sua partecipazione al medesimo.

 

La paura non ha alcun ruolo essenziale nella trasmissione del messaggio musicale dall'interprete al pubblico. E' solo la spia di una condizione imperfetta nella psiche di chi suona, o addirittura, in certi casi, del fatto che il musicista è fasullo. Eliminarla o meno è una scelta dell'inteprete. Credere che sia essenziale per trasmettere i valori musicali è - perdona la franchezza - un errore inutile.

 

Detto questo, occorre naturalmente dissipare possibili equivoci anche il relazione alla natura della sensazione che può accompagnare i momenti che precedono il presentarsi in pubblico. Occorre concentrarsi, questo non è facile, e la presenza di ostacoli alla concentrazione può causare un po' di nervosismo. Tutto ciò non ha nulla che vedere con la paura. E' un preliminare da svolgere accuratamente, con l'aiuto delle circostanze. Non si accorda soltanto lo strumento, prima di suonare, si accorda anche se stessi. Con il tempo, si impara a farlo in molte situazioni, ma non è possibile farlo in tutte: allora, ci si può innervosire. Ma non avere paura.

 

Spero di essermi spiegato chiaramente, e del resto non credo di averti detto nulla di nuovo, perché sull'argomento ti avevo già manifestato il mio pensiero.

 

Ciao.

 

dralig


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E' vero! A casa funziona tutto perchè siamo veramente noi stessi (e lo studente lo è ancora di più), e non dobbiamo dimostrarlo a nessuno. .

 

Nemmeno quando si suona in pubblico non vi è nulla da dimostrare. Se si è consapevoli di poter far musica, perché si è musicisti, intus et in cute, non si avverte alcun bisogno di dimostrarlo: lo si è e basta. Se si deve dimostrarlo, vuol dire che non si è certi di esserlo. E se non si è certi, perché mai proporsi a un pubblico?

 

Non occorre la psicoanalisi per sapere tutto ciò. E' patrimonio dell'umanità da molto tempo:

 

"Temer si dee di sole quelle cose

Ch'hanno potenza di fare altrui male,

De l'altre no, ché non son paurose".

 

Il sapere di Aristotele e di san Tommaso aveva già appurato l'essenza della paura e la sua ragione d'essere, e Dante, loro scolaro, ne indica l'origine:

 

"Come falso veder bestia quand'ombra".

 

dralig


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Giustissimo.

 

Non bisogna dimostrare niente a nessuno, bisogna far musica.

 

Per fare bisogna essere, caro Vladimir, e qui si apre un capitolo dolente. Qualche accenno. Il chitarrista si presenta in pubblico da solo per fare un recital (dicesi recital l'esibizione di un solo attore, e la definizione viene estesa anche a chi suona da solo). Ne ha il diritto, artisticamente? Lo studente che in conservatorio frequenta la classe di oboe o di violino, e che è bravo, aspira a far parte di un'orchestra o di un gruppo da camera. Non gli passa nemmeno per la testa l'idea di diventare un solista. Ogni mille studenti di violino, i professori ne individuano uno che, per le sue doti particolarissime, sembra poter aspirare alla carriera di solista. Il bravo violinista, che magari arriverà anche a diventare la spalla in orchestra, non si sente affatto sminuito dal fatto di non essere Perlman, suona con precisione, puntualità, flessibilità ai comandi del direttore, ed è contentissimo. Ancora più contento se la vita gli ispira e gli permette di entrare in un quartetto. Non si sogna di essere un solista, e sta benissimo.

 

Chi ha insegnato per decenni in conservatorio e scuole affini, può testimoniare che uno studente di chitarra, nella norma, non è affatto superiore a uno studente di clarinetto o di violoncello. Ma il repertorio della chitarra chiama il solista, e l'allievo risponde sulla presunzione di esserlo, anche se il suo talento, la sua tecnica, la sua statura musicale sono appena pari a quelle del coetaneo che studia nella speranza di trovare posto in una fila orchestrale. Ho impartito lezioni di musica da camera a gruppi in cui il chitarrista era lungi dall'essere il più bravo, eppure era l'unico ad alimentare una carriera solistica. Ci si rende conto dell'assurdità di tutto ciò? Petrassi diceva giustamente: tolto il caso di Segovia, un concerto di chitarra è una noia mortale. Si riferiva evidentemente al fatto che troppi, normalmente bravi, chitarristi, si ritengono chiamati a un compito speciale - quello del solista - e si presentano in pubblico con un recital. Hanno paura? Direi che dovrebbero: sono fuori posto, e in fondo lo sanno.

 

Il solista non è figura ordinaria nella vita musicale. E' figura eccezionale: in qualunque campo è rara avis. Il chitarrista, no: sta studiando il programma del corso inferiore senza rivelare alcunché di speciale, e già si propone per suonare come solista. A questa follia, bisognerebbe porre un argine, un freno. La musica da camera mi sembra un ottimo farmaco.

Il chitarrista che suona con altri strumentisti ha modo di rendersi conto della realtà, e di lavorare seriamente. Se Dio lo ha toccato del carisma solistico, ciò apparirà nella più pacifica evidenza dei fatti, e non sarà il frutto di una follia. Scoprire tardi di essere soltanto un bravo esecutore quando invece si credeva di essere un solista potrebbe essere molto doloroso. In questo senso, la paura di suonare in pubblico significa molte cose, e sarebbe bene prestarle molta attenzione.

 

dralig

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