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Angelo Gilardino

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  1. anatomia per me è la cosa più bella di quel titolo compresa la mescolanza di lingue (a proposito di coincidenze Alfredo...sto scrivendo una cosa da camera piuttosto sfiancante, che gira intorno all'"anatomia") Lei è Ezechiele Lupo, e Alfredo è Gimmi. dralig
  2. Va bene novembrina, va bene melanconia (perché il titolo in italiano e il sottotitolo in inglese?), ma anatomia no. Disgustoso. Il pezzo è buono, non sgambettarlo con quella parola nel titolo. dralig
  3. Senza entrare nel merito della complessa questione, e solo perché la discussione è nata riguardo uno studio di AG, vorrei precisare che quasi tutti i 60 studi hanno un titolo e un sottotitolo: ad esempio, Elegia di marzo (Omaggio a Juan Ramon Jimenez), Ophélie (Omaggio ad Arthur Rimbaud), etc. La numerazione serve a identificarli velocemente - essendo i chitarristi in genere poco inclini alle arti e alla letteratura, al di là di quello che chiamano "il nostro strumento", torna loro più facile riferirsi gergalmente al "quattordici di Gilardino", come al "due di Villa-Lobos". Poi, per i più "colti", ci sono i titoli letterari. L'autore non è un esperto di marketing, ma ha un editore che si, lo è, e dannatamente bravo. Infatti, dai suoi dati risulta che gli Studi "vendono" , rispetto alle altre opere del medesimo autore, nella proporzione di venti a uno. dralig
  4. Previa accurata consultazione dei volumi in questione, confermo: Studio n. 23, Noche oscura (Omaggio a san Juan de la Cruz). Mistico spagnolo del sec. XVI, carmelitano. Lo studio fu scritto nel 1983 a Lagonegro. Pioveva - è l'unica cosa che ricordo. Cioè, pioveva nel senso che pioveva anche nella stanza d'albergo in cui ero ospitato. Stavo leggendo i poemi di san Juan de la Cruz (poeta oltre che santo, altro che dralig!), e in fatto di noche oscura, a quei tempi avevo le...idee chiare. dralig
  5. Considerando che Chopin ha scritto degli "Studi" come i pezzi dell'op. 10 e dell'op. 25, che Brahms ha chiamato "Studi" le Variazioni su un tema di Paganini, e visto il livello delle Etudes di Debussy, non credo di essermi buttato via. Ma rifletterò sulle Sue osservazioni, grazie. dralig
  6. La variazione in esame non figura nella versione di Arcas, ed è quindi una delle aggiunte inventate da Tarrega. Non credo che lui credesse di aver avuto un colpo di genio. Si arrabattava suonando nei pueblos, dove dubito che avrebbero incassato i suoi Preludi o la sua trascrizione della Fuga per violino di Bach. dralig
  7. Per la verità, Tarrega ha chiamato nella "Gran Jota", indipendentemente da quello che ne riporta l'edizione Bèrben, "tambora" la percussione della mano destra vicino al ponticello (nella variazione ad accordi contrassegnata con "tutti"), e "tabalet" l'effetto delle corde 5 e 6 incrociate all'altezza della nona barretta, usandolo sia come accompagnamento che da solo. L'effetto non ha un nome canonizzato. Malcolm Arnold, che lo impiega nella sua Fantasiy, lo chiama "Snare drum". dralig
  8. Se quello del non saper leggere/scrivere la musica è avvertito come un handicap da lei , non deve aspettare neanche un giorno in più, e deve mettersi al lavoro. In altre parole, non deve accettare limitazioni al Suo lavoro di compositore - qualunque cosa Lei componga o intenda scrivere. Da giovane ho lavorato parecchio (per necessità) come penna per compositori del tastino (dicesi di chi scrive melodie senza sapere la musica), e spesso mi è capitato di avere che fare con persone musicalmente molto dotate, alle quali ho consigliato di imparare la musica: non è difficile, basta crederci e rimboccarsi le maniche, in un paio di anni può arrivare a scrivere quello che immagina e a leggere quello che Le serve, senza dover più patire limitazioni. Avendo familiarità con il computer, Le conviene servirsi di software per l'apprendimento, invece che di libri. Sono più diretti ed efficaci. dralig
  9. Esattamente. Suonare serve per rendere partecipi della musica gli ascoltatori. Non è necessario - non deve esserlo - per mettere chi legge il testo in grado di capire com'è la musica, come "suona": se chi legge, per "sentire" i suoni, ha bisogno di udirli fisicamente (suonandoli), è un musicista imperfetto. Certo, l'audizione mentale, interiore, non equivale all'audizione reale, ma è più che sufficiente per conoscere la musica. Così come è vero il contrario: ascoltando un brano suonato, il musicista compiuto "vede" mentalmente comporsi il testo musicale, immagina la partitura. Questo non lo afferma urbi et orbi il fanatico dralig. Lo scrive, nei suoi precetti agli studenti di musica, Herr Robert Schumann. dralig
  10. Bene, siamo arrivati - e non sono stato io a spingere in questa direzione - a un punto cruciale: una delle cause che scatenano il panico o la tensione quando si deve suonare in pubblico è l'insicurezza che l'esecutore nutre nei confronti della propria tenuta, specialmente mnemonica. L'esecutore non si fida di sé, teme di venire tradito da qualche frana interiore. Posso osservare che, nella stragrande maggioranza dei casi, ha perfettamente ragione di aver paura? La memoria gestuale è il risultato di una mappatura di una serie di fenomeni che il cervello fa durante l'esercitazione. Il cervello mappa quello che gli diamo, né più né meno. Quindi, mappa anche l'ambiente nel quale ci esercitiamo, la sedia sulla quale sediamo durante lo studio, etc., e questi dati ingloba nella sua memorizzazione del "suonare il pezzo". Quando ci trasferiamo in un luogo diverso e in una situazione nuova (una sala mai vista, con la presenza di ascoltatori), la mappatura mnemonica della musica non è traducibile: mancano i riscontri ambientali. Inoltre, rispetto alla condizione di studio, muta la chimica del corpo: esce l'adrenalina, e i gesti non corrispondono più a quelli memorizzati (per esempio le mani sudate non rispondono come le mani in condizioni normali, per non parlare dei tremori), e l'eventualità che, in un sottosopra del genere, non si verifichi il vuoto di memoria, è nell'ordine del miracolo. Quindi, l'esecutore ha paura. Ne ha ben donde. Tuttavia, anche nel panico del momento, l'esecutore non ha problemi a fornire a memoria la proprie generalità e il proprio indirizzo, o a enunciare il teorema di Pitagora, o a raccontare la propria vita, o a recitare le poesie che ha imparato a memoria a scuola. Si ricorda di tutto, nonostante il trac. Perché? Semplice, perché ha fissato tali dati nella propria memoria centrale, non in quella periferica. La conclusione è elementare: fino a che la musica da suonare non è immagazzinata nella memoria "mentale", e risiede in quella periferica, l'esecutore avrà vuoti di memoria e panico. dralig
  11. Ho un baule nel quale sprofondo perdutamente tutti i miei scritti e gli scritti riguardanti la mia opera. Metter mano lì dentro è impresa superiore alle mie possibilità. Mi sono occupato una vita dell'opera altrui, della mia si occuperà qualcun altro. Quindi, mi devo scusare, ma non sono in grado di recuperare quello scritto. dralig
  12. Per la verità, la memorizzazione della musica per chitarra è più facile di quella della musica per pianoforte. Polifonicamente, il testo chitarristico è ordinariamente assai meno denso di quello pianistico. dralig
  13. Allora si risparmi la fatica di memorizzare le note e memorizzi i gesti ripetendoli alcune migliaia di volte (operazione che non costa nessuna fatica). Non c'è da vergognarsi a imparare ripetendo i gesti: Darwin ci ha spiegato da dove veniamo, perché non ritornarci suonando la chitarra? dralig
  14. Il punto se lo è mangiato con l'orripilante similitudine con cui la macchiato la Sua - fin qui intemerata - reputazione. Si penta e prometta a tutti, tra le lacrime, che non si abbandonerà mai più a siffatte, nefande metafore. Forse, verrà perdonato. dralig
  15. ... e amano la buona cucina. ...Rifiutando ogni compromesso che allontani dalla perfezione: "Fritz, porti via questo fagiano, è disgustosamente salato". dralig
  16. ...e sono sovrappeso. I grassi sono i migliori (Nero Wolfe). dralig
  17. Cercherò di spiegarmi con un esempio. Un esecutore - un chitarrista, supponiamo, dato che la musica per chitarra non è in genere monodica e quindi presenta una certa complessità polifonica - suona un pezzo. Lei gli tolga la chitarra di mano, gli dia un foglio pentagrammato e una penna, e gli chieda di scrivere quello che ha appena suonato. Constaterà come ben pochi siano in grado di farlo. Constatazione: non hanno affatto memorizzato la musica che suonano, ma una serie di gesti manuali che conducono all'esecuzione del pezzo, esecuzione che loro controllano con il riconoscimento auditivo di quello che suonano. Se il rifornimento della memoria gestuale si spezza (per esempio, a causa di una scarica di adrenalina indotta dal trac), il riconoscimento auditivo non può soccorrerli, perché non funziona all'indietro. Ed ecco il vuoto di memoria. Per "sapere" veramente un pezzo a memoria, bisogna saperne ricordare le note in tutti i paramentri anche senza avere lo strumento in mano, in altre parole bisogna poterlo riscrivere o recitare. A rendere sistematico questo metodo di apprendimento del testo musicale in un'opera didattica, fu il didatta tedesco Carl Leimer, maestro di Walter Gieseking, che pubblicò negli anni Cinquanta uno scarno "metodo di perfezionamento pianistico", che io adottai subito per i miei affari chitarristici e cercai poi, con alterne fortune, di trasmettere ai chitarristi miei allievi. Questo metodo di apprendimento e di memorizzazione della musica è da adottare quando serve imparare i brani a memoria. Il principiante fatica di più, l'esecutore esperto di meno. dralig
  18. Se per errore Lei intende - come sembra chiaro - il vuoto di memoria, allora il porvi rimedio riagganciandosi a quello che segue, senza fermarsi e senza rendere palese a chiunque la smagliatura (gli esperti se ne rendono comunque conto), è in genere alla portata di un normale, buon esecutore. Il vuoto di memoria è pressoché inevitabile se si impara per ripetizione, limitandosi a ripetere molte volte il brano. Se invece lo si impara astrattamente, cioè senza strumento, fissando i vari parametri nella memoria visiva, oltre che in quella musicale, è pressoché certo che l'eventuale cedimento di una delle memorie sarà compensato dalle altre, e non darà luogo alla minima interruzione. dralig
  19. A de Santi dobbiamo riconoscere cristallina, indefettibile onestà artistica: quando - ancora giovane - ha sentito affievolirsi in lui l'ispirazione, non ha fatto leva sulla sua immensa bravura per continuare a suonare: con gesto di estrema coerenza, ha attaccato la chitarra al chiodo, noncurante dei contratti che aveva in tasca, e ha dedicato il suo talento ad altre attività. - nelle quali ha avuto successo quanto ne aveva come chitarrista (il talento non è acqua). Abbiamo potuto ascoltare il suo ultimo concerto di artista dionisiaco - come dici tu - ma ci ha risparmiato il suo successivo concerto, quello che sarebbe stato il primo di una routine professionale. dralig
  20. Dipende dallo strumento, Alfredo. Uno spiazzamento di un dito da parte di un pianista si traduce nella chiamata di una nota che non c'entra con quella che si deve suonare: estranea quanto si vuole al discorso musicale in atto, è pur sempre un suono, un bel suono, che si differenzia da quelli giusti solo per la sua impertinenza. Già più delicata si fa la situazione per un violinista: un piccolo spiazzamento di un dito produce si un suono, ma un suono non intonato: è vero che, se non si tratta di una nota brevissima in un contesto veloce, il violinista la può sempre aggiustare, ma la prima impressione è indubbiamente sgradevole - ne ho ricevute molte, una sera ricordo Oistrakh sistematicamente calante nel primo tempo della Sonata a Kreutzer, e Dio sa se dava fastidio. Nel caso del chitarrista, il danno è massimo: uno spiazzamento di un dito, anche sul tasto giusto, ma non preciso rispetto alla barretta, ha come conseguenza un rumore, che rovina il suono. Ricordo un concerto di Segovia nel 1959, con la sua Hauser ormai al lumicino, e la frizione immancabile ogni volta che suonava un si bemolle in seconda corda - una cosa atroce. Quindi veramente il chitarrista balla sui fili, e ha la vita più difficile di qualunque altro strumentista. Un concerto interamente limpido di un chitarrista è cosa rarissima...Giustamente, ci appuntiamo su altri aspetti dell'"offerta musicale", ma è indubbio che l'errore disturba. D'altra parte, certi "flash" di Bream si verificavano principalmente nei suoi concerti più disastrosi, quasi a compensazione... Certo, ma dobbiamo ammettere che capita di rado, molto di rado, nel caso dei concerti di chitarra. Per cui, si finisce per dare importanza al fattore meccanico e alla pulizia, in mancanza d'altro... dralig
  21. Certo che deve restare un gran divertimento, sapendo che chi si ha davanti la pensa così. Che si debba saper proseguire in modo che un eventuale errore non incida o interrompa l'insieme, posso capirlo, ma questa propensione all'ascolto col fucile puntato sull'interprete un po'meno. Butterfly Ho conosciuto e ascoltato in carne ed ossa tutti i grandi chitarristi attivi nella seconda metà del Novecento e posso assicurare che nessuno è, o era, infallibile. Nessun ascoltatore che sia mosso da un interesse musicale appunterà mai la sua attenzione sul piccolo errore che accade inevitabilmente, anche nell'esecuzione del virtuoso più capace di controllo. Questa constatazione non deve indurre nella tentazione di apprezzare l'errore in quanto tale - perché, denunciando la fallibilità umana, esso avvicinerebbe l'esecutore all'ascoltatore: questo non è vero, l'errore, grande o piccolo, dà sempre fastidio a chi lo commette e a chi lo percepisce. La neurologia ci spiega peraltro come sia umanamente impossibile mantenere al massimo livello la concentrazione su una serie complessa di comandi per più di alcuni minuti, anche da parte del cervello più pronto ed efficiente. Poiché un recital dura un'ora o più, il livello della concentrazione dell'esecutore sarà quindi soggetto a un certo numero di cadute, ed è in quelle fasi che l'errore accade. Come tale, viene tollerato, e non influisce sull'apprezzamento dell'esecuzione, che si accetta o si rifiuta in relazione - per fortuna - ad altri contenuti. C'è errore ed errore: il piccolo incidente si tollera. L'errore causato invece da problemi tecnici di fondo o da una assimilazione imperfetta della musica da parte dell'interprete, quello no, non è scusabile: chi lo commette non dovrebbe avere l'impudenza di presentarsi in pubblico. dralig
  22. Carissimo Piero, non vi è chi non veda l'assennatezza e la profondità del tuo pensiero riguardo Segovia e, se persona ragionevole e specificamente istruita, non ne condivida la sostanza: quello che dici è vero e incontestabile. Potremmo aggiungere - l'ho fatto in un articolo recentissimamente pubblicato da "Suonare News", che l'influsso esercitato da Segovia nella storia della chitarra ha agito, e seguita ad agire, forse persino al di là della stessa consapevolezza del maestro: l'arricchimento del repertorio constatato e reso pubblico dal 2001 ad oggi, grazie ai ritrovamenti verificatisi nel suo archivio personale, hanno conferito un nuovo profilo alla storia della chitarra della prima metà del Novecento, inglobando nel repertorio della chitarra pagine di grande valore, che furono scritte soltanto perché esisteva Segovia, e che ci sono giunte da Segovia, anche se egli non volle, non poté o semplicemente non ebbe il tempo di curarsene: le ha però tenute in serbo per i posteri. Come tu osservi, spesso parlava tacendo, e vorrà dire qualcosa - io credo - il fatto che, non potendo essere lui l'interprete-modello di queste pagine - abbia preferito lasciarle silenti piuttosto che affidarne l'esecuzione ad altri. Non occorre aggiungere nulla. Mentre concordo con te nella valutazione delle sue opere didattiche scritte a pagina bianca - quali le scale - credo che oggi le sue revisioni, specialmente quelle delle musiche scritte da maestri della chitarra non meno grandi di lui, come Fernando Sor, vadano considerate come documenti storici, lette come tali e non più adoperate in sostituzione degli originali. Se noi vogliamo studiare l'arte di Segovia, per comprenderne a fondo praxis e poiesis, allora non potremo fare a meno di esaminare con attenzione i suoi interventi sulla musica di sor (e, in misura anche maggiore, su quella di Ponce e degli altri autori del Novecento prediletti dal maestro). Se noi invece intendiamo suonare la musica di Sor, e nient'altro, allora i testi da adottare sono, senz'ombra di dubbio e di esitazione, quelli di Sor, e di nessun altro: come Segovia, anche Sor merita tutta la nostra attenzione e il nostro rispetto e, credimi - ti parla il compositore - per rispettare un autore, la prima cosa da fare è leggere quello che ha scritto, come l'ha scritto. Perché la figura di Segovia risplenda nella storia della chitarra - e mi pare che ciò stia avvenendo nel più forte dei modi - non occorre che le figure di altri maestri vengano offuscate. Non mi propongo, con questo ennesimo scritto al riguardo, di correggere le tue convinzioni, che rispetto profondamente e che, in un certo senso, ammiro (perché considero la nobiltà del tuo atteggiamento verso Segovia anche alla luce del comportamento spregevole di altri suoi allievi), ma quello di rappresentare, agli occhi di chi ci legge, specialmente degli studenti che di Segovia sanno poco e dei compositori da lui eseguiti ancora meno, una posizione diversa dalla tua, equidistante sia da Segovia che dai compositori dei quali egli si è occupato: la storia - come hai osservato - procede, e ci incalza con le sue evidenze, alle quali non possiamo sottrarci. Non essendo questo il primo episodio della nostra divergenza sull'argomento, suppongo che non sarà nemmeno l'ultimo: l'evenienza è lungi dal dispiacermi, perché è una discussione aperta e nessuno - credo - ha la pretesa di detenere la verità. dralig
  23. E' parimenti importante che non si parli di musica con le argomentazioni e con il linguaggio tipici delle conversazioni al bar. Fuori discussione il sacrosanto diritto - che Lei giustamente rivendica - di "vivere" la musica "di pancia" (è un diritto civile) e di suonare/ascoltare la musica eletta dalle proprie viscere, si dovrebbe anche - da parte di color che non sono soltanto acquirenti di dischi, ma anche e soprattutto musicisti: studenti, insegnanti, concertisti, etc. - esercitare tale diritto distinguendo, in due ben diverse categorie, la preferenza e il giudizio. La prima, si esercita in modo del tutto personale e soggettivo, e non necessita di giustificazioni. Il giudizio è invece, deve essere, il risultato di un'operazione critica, e non può essere emesso a partire dai riboboli dell'intestino: deve provenire dallo studio e dall'analisi dell'opera. Ma chi è in grado di leggere criticamente un brano di musica, specialmente per chitarra? Il compositore istruito, certamente: il suo giudizio è attendibile per ogni riguardo, meno che per l'aspetto idiomatico, che tuttavia è determinante, in un brano strumentale. Quindi, è un giudizio emessa su aspetti fondamentali dell'opera, ma non è un giudizio completo, esaustivo. I chitarristi? E come fanno, con la loro licenza di solfeggio e il loro stiracchiato biennio di armonia complementare ("cultura musicale generale") a valutare la qualità di un brano di musica la cui forma non sono in grado di comprendere, non soltanto nei dettagli, ma a volte nella stessa struttura? Che ne sanno della rudimentalità o della finezza con cui un compositore ha elaborato una forma? Dove hanno formato gli strumenti analitici che permettono loro di cogliere l'enorme distanza che corre tra la forma variazione come la forgia un Britten e come la applica, in modo rozzo e banale, un chitarrista-compositore che strizza l'occhio agli esecutori con quattro effetti senza causa? dralig
  24. Il significato principale del titolo "Studio" attribuito a un brano musicale ne indica certamente la finalità didattica, ma occorre ammettere anche altre accezioni. "Studio" può riferirsi all'operazione svolta dal compositore che, scrivendo un brano per uno strumento, ne indaga (cioè ne studia) le caratteristiche e le possibilità; magari (se il compositore ha una mente creativa) espandendole. Oppure può riferirsi all'operazione con cui il compositore, scrivendo un brano per uno strumento che conosce perfettamente, e che quindi non deve più "studiare", "studia" invece se stesso, i suoi stessi pensieri musicali: il "conosci te stesso" - obiettivo tra i più complessi e meritevoli - implica uno studio che può benissimo essere svolto anche attraverso la composizione (personalmente, non conosco uno studio più efficace, al fine di conoscere se stessi, che quello di comporre musica). Usato come verbo, soggetto sottinteso "io", "studio" - secondo quanto ho constatato nella mia esperienza di didatta - significa che chi ha appena pronunciato quella parola si accinge a fare tutt'altro. Quelli che studiano, non lo dicono, lo fanno. dralig
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