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Angelo Gilardino

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  1. Heiftez era la perfezione in carne e ossa. Nel concerto di Sibelius, però, credo che Oistrak gli abbia dato dei punti, almeno nelle parti spianate. Dove c'è il virtuosismo, hai ragione tu, Heifetz era insuperabile. Tutti belli i concerti che menzioni ma, a questo punto, ti devo domandare se conosci il neglettissimo primo concerto per violino di Bartok. Sentiamo che cosa ne dici. dralig
  2. Questo è un classico esempio di spudoratezza. Come rientrerà in Italia, Gliela faremo pagare cara. dralig
  3. Non ce n'erano mica tanti che suonavano come lui il Concerto di Sibelius... Facessi io una registrazione così, sarei a posto per sempre... Secondo me, tu potresti fare cose di quel livello. La questione è: vorrai farle? Cioè, sarai disposto a pagare il prezzo che l'arte esige, quando si vuole raggiungere la vetta? Solo l'interessato può rispondere, e agli altri spetta, al massimo, porre la domanda. Quanto a lui, il programma di musica classica di Sky ha recentemente trasmesso una serie di vecchi filmati di sue esecuzioni. Mi ha fatto impressione riascoltare quel suono, che era proprio di un modo di suonare il violino (suo, di Arthur Grumiaux, e ancor prima di Jacques Thibaut), e devo dire che, anche nello strumento ad arco, come nella chitarra, i grandi progressi tecnici sono stati pagati con la perdita di quel suono. Mi fa piacere che ascolti il concerto di Sibelius. Io ho 11 registrazioni di 11 violinisti diversi. Se ti piace quel concerto, salta addosso prima che puoi al concerto per violoncello di Elgar, diventerai matto. dralig
  4. Entrambe. Il progredire dell'età appanna i riflessi ma tale perdita è compensata dalla chiaroveggenza che si acquista con il lavoro e con l'esperienza. Gli interpreti, come i compositori, percorrono un itinerario: alcuni di loro hanno inciso la stessa opera due o tre volte in momenti diversi della loro carriera proprio per lasciare traccia del mutamento di visione della musica verificatosi nel tempo. Ogni artista ha la sua storia, che in genere è fatta di alti e bassi, di oscillazioni. In genere - ancora - gli alti e i bassi coincidono con le vicende personali extra-musicali. Il grande violinista francese che a quarant'anni è all'apice della sua arte e a cinquanta si suicida perché non riesce a mantenere il suo livello, e perde vistosamente di qualità, sa benissimo qual è il suo problema: l'alcoolismo invincibile. Lo stato di salute è determinante nel rendimento di uno strumentista. Ugualmente importanti sono le relazioni personali. L'arte è specchio della vita... dralig
  5. Quelli dei pezzi chitarristici sono considerate registrazioni autentiche - non c'è motivo per supporre che non lo siano, perché si sa che HVL, da giovane, era anche un chitarrista. Come tale si esibì, ad esempio, in casa della sua futura moglie, la sera in cui furono presentati. dralig
  6. Non era John? Infatti, Jack è una forma confidenziale - una specie di diminutivo-vezzeggiativo - di John. dralig
  7. Culturalmente (politicamente non so) Jack Duarte era l'opposto di tutto ciò: era il tipico inglese liberale, con evidenti nostalgie colonialistiche. dralig
  8. In poche parole ai geni lasciamo il solismo e a quei chitarristi non geniali la musica da camera? e gli altri strumentisti che dovrebbero suonare con questi chitarristi che non hanno bisogno di essere geni, possono anch'essi a loro volta essere dei "non geni"? O devono sopperire alla mancanza di genialità del loro collega? Oltre a sembrarmi vagamente contraddittorie, trovo che le sue affermazioni non tengano conto del semplice fatto che moltissimi esecutori "geniali" curano al tempo stesso solismo e musica da camera. Rispondo di quello che ho affermato. Ho detto - e Lei lo ha riportato - che la musica da camera è un traguardo di eccellenza, mentre il solismo dovrebbe essere riservato a persone dotate di capacità straordinarie. Non ho né detto né implicato che i solisti non possano e non debbano fare anche musica da camera. Poveri sventurati non sono coloro che cercano di realizzare fedelmente i doni che Iddio ha dato loro, ma coloro che cercano di persuadere se stessi e gli altri di essere ciò che non sono e di avere ciò che non hanno. Di questi c'è sovrabbondanza. Patetica e disperata. dralig
  9. Nel 1979 in Svezia mi fu presentato un chitarrista anziano che, fino al 1939, aveva vissuto isolato nel nord del suo paese lavorando come taglialegna. Autodidatta, aveva basato la sua impostazione chitarristica sulle fotografie di Segovia pubblicate nel frontespizio delle edizioni Schott, e aveva imitato perfettamente la postura del maestro. Però, siccome le foto di Segovia erano a mezzo busto, fino a quando non ebbe occasione di andare a un suo concerto in Svezia, suonò sempre stando in piedi, e fu enormemente sorpreso nel vedere Segovia suonare seduto. dralig
  10. Ma quanti pettegolezzi! In fondo, è una fotografia con cinque musicisti che erano stati convocati in un albergo veneziano per esaminare un centinaio di composizioni per chitarra. Mica l'avevano arredato loro, l'albergo! dralig
  11. Per la verità, la giuria erano loro. Io ero lì chiamato a far da badilante, cioè a leggere a vista i pezzi che loro selezionavano. Comunque, mi diedero da mangiare e mi pagarono bene. Nella circostanza - questo ci tengo a ricordarlo - salvai la vita - o comunque risparmiai una lunga degenza in ospedale - a Tansman, che stava attraversando una strada senza accorgersi del sopraggiungere di un taxi. Rischiò di finire all'obitorio la mia Ramirez: per afferrare lui, la lasciai cadere per terra (nell'astuccio beninteso), ma finì invece sui piedi del passante che mi seguiva, e che ruzzolò in terra. Finì tutto in una risata generale - rideva soprattutto il taxista veneziano. Tansman un po' meno. dralig
  12. La musica da camera non è un ripiego per solisti mancati, è comunque un traguardo di eccellenza per ottimi strumentisti, che trovano maggior gratificazione, sia artistica che professionale, nel repertorio cameristico piuttosto che in un'improbabile attività solistica. La chitarra ha un buon repertorio di musica da camera, che può tranquillamente riempire l'attività professionale di un esecutore che abbia buona tecnica, sonorità ampia e prontezza di lettura (tutte cose acquistabili con lo studio, senza essere dei geni). Nel campo della chitarra, ci sono molti buoni strumentisti che si impegnano in un'attività solistica di scarsa soddisfazione, da ogni punto di vista. Sarebbe molto più remunerativo, per loro, e assai più utile, per la musica, se si versassero con passione nella musica da camera, dove le loro qualità potrebbero risaltare e i loro limiti non risulterebbero in modo evidente, come invece avviene quando si presentano da soli. La noia che molti ascoltatori sentono nell'ascoltare un chitarrista non è causata dal fatto che questi non è bravo, ma dal fatto che è soltanto bravo. Per suonare in pubblico una chitarra da soli non basta essere bravi, bisogna essere molto più che bravi. Se lo si è, risulta chiaro fin dai primi mesi di studio. A meno che gli insegnanti siano degli stolti, se un allievo ha qualcosa di eccezionale lo si percepisce anche da come suona le corde a vuoto. dralig
  13. Strumenti come il pianoforte e la chitarra, il cui repertorio solistico è ricco, non richiamano soltanto esecutori eccezionali, ma anche - e per la maggior parte - esecutori normali che, con una buona preparazione, possono raggiungere una conoscenza approfondita del repertorio e anche un livello di esecuzione soddisfacente in ambito personale, familiare, scolastico. Il solista destinato a fare il concertista è, in questa categoria, un'eccezione, non diversamente dal flautista che, invece di suonare in orchestra, farà il concertista di flauto: questa è la realtà. Darsi rappresentazioni diverse di tale realtà significa dannarsi l'anima e l'esistenza. La paura, di cui qui si discorreva, è spesso - quasi sempre - un sintomo tipico di tale dannazione. Può darsi. L'importante è che tale aspirazione si fondi sulla reale disponibilità di mezzi adeguati, e non solo sul desiderio. dralig
  14. Praticare un repertorio solistico non implica essere destinati a eseguirlo in pubblico. La tradizione borghese del pianoforte, che alimenta da due secoli un'industria, un'editoria e una serie correlata di consumi, è a propria volta alimentata da esecutori che familiarzzano con il repertorio dello strumento solista per eccellenza, ma che non si sognano di puntare a una carriera concertistica. Chi si laurea in lettere pensa necessariamente di fare lo scrittore? Chi si diploma all'accademia di belle arti sarà perciò stesso un pittore o uno scultore? Analogamente, chi va al conservatorio a studiare chitarra, e vi si diploma, dovrebbe capire che ciò non lo conduce necessariamente a svolgere un'attività concertistica in qualità di solista. Si dirà: allora, perché studiare qualcosa in cui non si eccelle? Non so rispondere, ma so di non dover rispondere. Ciascuno fa della sua vita quello che vuole. Maturità personale e maturità artistica non possono essere scisse, sono consustanziali. Può accadere che l'interazione dell'artista e quella dell'uomo con il mondo diano luogo a situazioni diverse (l'artista ammirato, l'uomo detestato, etc.), ma questo appartiene alla sfera esterna: l'artista maturo è immancabilmente anche un uomo maturo. Che - come osservava Baudelaire - pur maturando, ha saputo conservare intatta l'immaginazione e la sensibilità dell'infanzia (vedere Elemire Zolla, Lo stupore infantile, Ed. Adelphi, e James Hillman, Il codice dell'anima, id.) dralig
  15. Amen fratello! Meglio ancora non doverlo raggiungere, perché lo si ha in sé dalla nascita, e si è capaci di non smarrirlo. dralig
  16. Lei è alle soglie della comprensione. Faccia ancora un passo avanti e la paura scomparirà una volta per tutte. Le vorrei offrire un aiuto. Si procuri alcune incisioni di colui che è stato uno dei massimi pianisti del Novecento, Vladimir Horowitz. Come forse Lei sa, dovette allontanarsi per una decina d'anni dall'attività concertistica a causa di problemi psichici che, al momento di presentarsi in pubblico, si manifestavano in un panico devastante. Provi ad ascoltare le sue registrazioni prima e dopo l'eclissi. Ad esempio, Le suggerisco di ascoltare il secondo concerto di Brahms o il concerto famosissimo di Tchaicovskij (diretti, tra l'altro, da Toscanini), e avrà l'impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di sovrumano. Poi, ascolti una registrazione del vecchio Horowitz ottantenne, evidentemente dimidiato nella tecnica e nella potenza di suono, che esegue la Kreisleriana op. 16 di Robert Schumann, e fissi la Sua attenzione in particolare sull'ultimo tempo (dove troverà alcuni gravi accroc pianistici: il vecchio leone aveva perso gli artigli...). Dopo, se vuole, ne riparleremo, ma consideri un fatto importante: il vegliardo che compie quel miracolo di poesia musicale nella Kreisleriana non aveva più alcuna paura, anzi scherzava sulla sua tecnica ormai andata su per il camino. Il titano che invece trascinava l'orchestra della NBC, mettendo alla frusta anche la bacchetta di Toscanini, giunse ad accumulare in sé una tale paura da non poter più, letteralmente, mettere le mani sulla tastiera per un decennio. Buon ascolto e buona riflessione. dralig
  17. Angelo carissimo, dominare le proprie paure è operazione delicatissima e importantissima. Vai a toccare il DNA dell'uomo con tutte le modificazioni che questo comporta. Mi vengono in mente, ad esempio, i cibi transgenici che non sanno più di nulla, gli alberi senza chioma, gli animali tutti uguali. e così via. Non voglio diventare così. Voglio combattere le mie paure attraverso i mezzi che la natura mi offre, senza forzare nulla. Ho paura di diventare quello che non vorrei mai essere, un'uomo che affronta la vita con indifferenza o saccenza. So bene, e Montale me lo ricorda divinamente, che sono uno strumento nelle mani dell'arte e che il tutto mi è stato affidato solo in prestito. Niente di quello che faccio è opera mia. Cerco di tirarlo fuori solo perché mi è stato dato. Quello che è mio, invece, è tutta la debolezza umana, fatta di carne che sanguina se si ferisce, di lacrime che sgorgano se si è tristi o di occhi che brillano per la gioia. Queste cose non posso addomesticarle. Smettere di piangere o ridere, perchè devo dimostrare a tutti i costi che non devo emozionarmi, equivale a mangiarsi un pollo vissuto per tutta la vita in condizioni che conosciamo benissimo. Lontanissimo un miliardo di anni luce dalle poesie che ci regali, ti offro anch'io la mia visione in versi di cosa provo durante un concerto. CONCERTO L’anima si spoglia per guardare il mondo in solitudine e volare sulle teste indistinguibili di un pubblico di sabbia piccoli granelli luccicanti che formano un mare bellissimo che a volte ruggisce altre no ancora rumoreggia ma poi si placa come le onde come la pioggia come le stelle che ardono e illuminano il buio della sala che tristemente si svuota quando l’anima rientra nel suo involucro di plastica e aspetta di riveder la luce Francesco Milano, ven21gen2004 Caro Francesco, quello che leggo nei tuoi versi - e che ho ascoltato molte volte nelle tue esecuzioni - è poesia, non paura. Che tu raggiunga uno stato poetico vincendo la paura è molto bello, ma non è necessario. E senza paura non smetteresti di essere il poeta-musicista che sei. Ho sempre creduto e pensato che l'arte è un modo di vivere, ed è la sostanza della vita dell'artista. Basta a ogni giorno la pena del creare, non occorre aggiungerne altre. Quando ci si presenta in pubblico, ci si trova dinanzi all'umanità. Altro che provarne paura, ci assale compassione. Come meglio non si poteva, ce lo dice Jorge Luis Borges: "Parlano di umanità. La mia umanità è sentire che siamo voci della stessa miseria. Parlano di patria. La mia patria è un palpito di chitarra, alcuni ritratti e una vecchia spada, L'evidente preghiera dei salici nell'ora dei tramonti". Ma quale paura? Di chi e di che cosa? dralig
  18. Si, ma qual è il modo migliore per dominarla? Assalirla con contrasti allopatici? Opporle resistenza? La paura sarà sempre lì, e ad essa si aggiungerà l'aggravante della resistenza. E' chiaro che l'unico modo di dominare la paura è comprenderne l'essenza e l'origine alle radici. Questo comporta un'operazione di verità che, nei riguardi di se stessi, non tutti, anzi non molti, sono disposti a compiere. E' più facile alimentare un mito di se stessi, costruire su ciò che si è l'immagine di ciò che si vorrebbe essere, e a quella sacrificare ogni evidenza di verità: questa simulazione è la fonte di una infinita serie di paure e di terrori. Paradossalmente, si dà talvolta (anche se di rado) il caso di musicisti che sono potenzialmente assai migliori del modello che si sono imposti: in tali casi, la paura arriva a livelli patologici. Per trasmettere fedelmente un messaggio, caro Francesco, non occorre conoscerne letteralmente il contenuto. Il mistero dell'arte si serve degli artisti per consolidarsi nella sua iterazione, non per svelarsi. E' ancora la poesia che ci aiuta a capire: "La mia venuta era testimonianza di un ordine che in viaggio mi scordai, giurano fede queste mie parole a un evento impossibile, e lo ignorano." E più avanti: "...Non sono che favilla d'un tirso. Bene lo so: bruciare, questo, non altro, è il mio significato". dralig
  19. Per fare bisogna essere, caro Vladimir, e qui si apre un capitolo dolente. Qualche accenno. Il chitarrista si presenta in pubblico da solo per fare un recital (dicesi recital l'esibizione di un solo attore, e la definizione viene estesa anche a chi suona da solo). Ne ha il diritto, artisticamente? Lo studente che in conservatorio frequenta la classe di oboe o di violino, e che è bravo, aspira a far parte di un'orchestra o di un gruppo da camera. Non gli passa nemmeno per la testa l'idea di diventare un solista. Ogni mille studenti di violino, i professori ne individuano uno che, per le sue doti particolarissime, sembra poter aspirare alla carriera di solista. Il bravo violinista, che magari arriverà anche a diventare la spalla in orchestra, non si sente affatto sminuito dal fatto di non essere Perlman, suona con precisione, puntualità, flessibilità ai comandi del direttore, ed è contentissimo. Ancora più contento se la vita gli ispira e gli permette di entrare in un quartetto. Non si sogna di essere un solista, e sta benissimo. Chi ha insegnato per decenni in conservatorio e scuole affini, può testimoniare che uno studente di chitarra, nella norma, non è affatto superiore a uno studente di clarinetto o di violoncello. Ma il repertorio della chitarra chiama il solista, e l'allievo risponde sulla presunzione di esserlo, anche se il suo talento, la sua tecnica, la sua statura musicale sono appena pari a quelle del coetaneo che studia nella speranza di trovare posto in una fila orchestrale. Ho impartito lezioni di musica da camera a gruppi in cui il chitarrista era lungi dall'essere il più bravo, eppure era l'unico ad alimentare una carriera solistica. Ci si rende conto dell'assurdità di tutto ciò? Petrassi diceva giustamente: tolto il caso di Segovia, un concerto di chitarra è una noia mortale. Si riferiva evidentemente al fatto che troppi, normalmente bravi, chitarristi, si ritengono chiamati a un compito speciale - quello del solista - e si presentano in pubblico con un recital. Hanno paura? Direi che dovrebbero: sono fuori posto, e in fondo lo sanno. Il solista non è figura ordinaria nella vita musicale. E' figura eccezionale: in qualunque campo è rara avis. Il chitarrista, no: sta studiando il programma del corso inferiore senza rivelare alcunché di speciale, e già si propone per suonare come solista. A questa follia, bisognerebbe porre un argine, un freno. La musica da camera mi sembra un ottimo farmaco. Il chitarrista che suona con altri strumentisti ha modo di rendersi conto della realtà, e di lavorare seriamente. Se Dio lo ha toccato del carisma solistico, ciò apparirà nella più pacifica evidenza dei fatti, e non sarà il frutto di una follia. Scoprire tardi di essere soltanto un bravo esecutore quando invece si credeva di essere un solista potrebbe essere molto doloroso. In questo senso, la paura di suonare in pubblico significa molte cose, e sarebbe bene prestarle molta attenzione. dralig
  20. Nemmeno quando si suona in pubblico non vi è nulla da dimostrare. Se si è consapevoli di poter far musica, perché si è musicisti, intus et in cute, non si avverte alcun bisogno di dimostrarlo: lo si è e basta. Se si deve dimostrarlo, vuol dire che non si è certi di esserlo. E se non si è certi, perché mai proporsi a un pubblico? Non occorre la psicoanalisi per sapere tutto ciò. E' patrimonio dell'umanità da molto tempo: "Temer si dee di sole quelle cose Ch'hanno potenza di fare altrui male, De l'altre no, ché non son paurose". Il sapere di Aristotele e di san Tommaso aveva già appurato l'essenza della paura e la sua ragione d'essere, e Dante, loro scolaro, ne indica l'origine: "Come falso veder bestia quand'ombra". dralig
  21. Sta nascendo un equivoco, caro Francesco, Vediamo se è possibile dissiparlo. Sembrerebbe, da quello che scrivi, che la paura sia il vettore indispensabile delle emozioni che l'interprete deve trasmettere al pubblico e che, in assenza di paura, non ci sia alcuna trasmissione di valori e di contenuti - quelli proprii e specifici dell'arte, che generano emozione. Non è così. La musica è quello che è, i suoi messaggi transitano benissimo anche senza paura - anzi, la paura è un grave ostacolo che offusca la chiarezza del messaggio. La ricerca dell'origine della paura conduce sempre alla scoperta del fatto che chi suona intende (più o meno consciamente) proiettare non soltanto e non principalmente la musica, ma un'immagine di sé alla quale nel profondo non crede, e che quindi ha bisogno di dimostrare continuamente (prima a se stesso e poi agli altri): la paura scaturisce da questa incertezza, cioè dall'ipotesi paventata che la dimostrazione fallisca e che l'immagine non corrisponda a ciò a cui l'interprete agogna. Faccio un esempio riferendomi a un assunto fondamentale della celebrazione della Messa cristiana (non occorre essere credenti o praticanti per comprendere il concetto). Essa si basa sul valore della transustanziazione, ossia sul fatto che il pane e il vino dell'eucarestia diventano il corpo e il sangue di Cristo. Il credente, sia esso colui che celebra la Messa, cioè il sacerdote, o colui che vi assiste, sa che questo fenomeno - la transustanziazione - si verifica per volontà del Creatore, e non ha alcuna ragione di aver paura che, nella singola circostanza, esso non abbia luogo, fallisca: ciò indipendentemente dal modo con cui la cerimonia liturgica viene "recitata". Il sacerdote non ha alcuna paura: questo non significa che il messaggio potentissimo non venga trasmesso e che il miracolo non abbia ogni volta puntualmente luogo. Se il sacerdote avesse paura, non trasmetterebbe nulla di più di quello che è proprio dell'evento della transustanziazione: renderebbe soltanto più difficile la sua partecipazione al medesimo. La paura non ha alcun ruolo essenziale nella trasmissione del messaggio musicale dall'interprete al pubblico. E' solo la spia di una condizione imperfetta nella psiche di chi suona, o addirittura, in certi casi, del fatto che il musicista è fasullo. Eliminarla o meno è una scelta dell'inteprete. Credere che sia essenziale per trasmettere i valori musicali è - perdona la franchezza - un errore inutile. Detto questo, occorre naturalmente dissipare possibili equivoci anche il relazione alla natura della sensazione che può accompagnare i momenti che precedono il presentarsi in pubblico. Occorre concentrarsi, questo non è facile, e la presenza di ostacoli alla concentrazione può causare un po' di nervosismo. Tutto ciò non ha nulla che vedere con la paura. E' un preliminare da svolgere accuratamente, con l'aiuto delle circostanze. Non si accorda soltanto lo strumento, prima di suonare, si accorda anche se stessi. Con il tempo, si impara a farlo in molte situazioni, ma non è possibile farlo in tutte: allora, ci si può innervosire. Ma non avere paura. Spero di essermi spiegato chiaramente, e del resto non credo di averti detto nulla di nuovo, perché sull'argomento ti avevo già manifestato il mio pensiero. Ciao. dralig
  22. Forse è bene considerare la cosa dal punto di vista artistico. Suonare in pubblico significa rendere gli ascoltatori consapevoli di (e partecipi a) qualcosa che è proprio della musica eseguita e dell'esecutore. Perché ciò avvenga, è necessario che l'identificazione tra l'esecutore e la musica eseguita sia totale: se non lo è, perché mai suonare in pubblico? (ecco con ciò eliminato il primo equivoco: si suona in pubblico se si può). Inoltre, occorre che gli ascoltatori siano disposti ad accogliere la musica e l'arte dell'esecutore (ecco dissipato un secondo equivoco: il chitarrume che va ad ascoltare un concerto di chitarra con il proposito di cogliere il concertista in fallo, o di esserne comunque il giudice inesorabile, non fa parte degli ascoltatori, ma di una casistica di tipo patologico, che chi suona impara a non tenere nella minima considerazione). La musica pensata dal compositore e integrata dall'arte dell'interprete perviene all'ascoltatore attraverso un normale atto di comunicazione, non attraverso un miracolo che può aver luogo oppure no: dov'è dunque l'origine della paura, del panico, del trac? Evidentemente, in cause esterne. Primo, l'esecutore non è affatto identificato con la musica, diciamo che la sa suonare perché l'ha imparata con sforzo e ripetizioni coatte, ma non ne ha fatto cosa propria, non ha una presa diretta sull'opera. Ha paura? Direi che dovrebbe averne molta: la paura è la spia del fatto che sta giocando con carte truccate, e teme di venire scoperto. Secondo, l'esecutore ha un io smisurato, e si serve della musica per affermarlo: è chiaro che deve aver paura. Paura che gli ascoltatori non lo riconoscano come un superuomo, un genio, un fuoriclasse. Tutto ciò non ha niente che vedere con l'arte, con la musica, con l'essenza stessa del far musica per gli altri: è esibizione, tronfia ostensione di sé. Perché mai chi è affetto da una sindrome del genere non dovrebbe aver paura? Se chi suona fa musica nel senso proprio del termine, cioè "è" la musica (voce del verbo essere), perché mai sulla terra dovrebbe aver paura? Paura di che cosa? Gli ascoltatori presenti hanno qualcosa in più di lui, un battesimo speciale, un salvacondotto già in tasca per l'eternità? Non siate troppo teneri verso coloro che hanno paura di suonare in pubblico. Chi trasmette agli ascoltatori la paura che ha dentro di sè non ha il diritto di far pagare un biglietto per il proprio concerto: la paura, gli ascoltatori ce l'hanno già in proprio, per tanti motivi, e non vanno ad ascoltare un concerto per aggiungerne altra. Vanno per ascoltare musica. Si dia loro musica, non paura. E se si ha paura, invece di fare concerti si stia a casa propria. dralig
  23. Ah no? Lei ha scritto, testualmente: "maestro Gilardino ciò che lei ha enunciato è una bella teoria ma personalmente non credo che possa avere un effettivo risvolto pratico." In questa proposizione non c'è alcun riferimento al Suo caso personale, è invece estesa impersonalmente a chiunque. In sostanza Lei ha contestato una mia affermazione, definendola una "bella teoria", laddove invece essa è il risultato di una sperimentazione didattica durata 40 anni e ancora in corso: questo è ben altro che un'eccezione al bon ton. dralig
  24. Per la verità, oltre ai due lavori minori sopra citati, per il duo di violoncello e chitarra io ho scritto anche qualcos'altro: Concerto per Violoncello, Chitarra e Orchestra ("Star of the Morning"), eseguito in prima mondiale dal duo Boris Andrianov-Dimitri Illarionov nel maggio 2005 per il festival di Kaluga (Russia). E' pubblicato dalle Edizioni Bèrben. dralig
  25. Io ho suonato in pubblico per 23 anni, e non enuncio belle teorie: parlo di ciò che ho fatto, carne e sangue. Quello che Lei personalmente crede o non crede non ha alcun peso su quello che io ho già appurato e sperimentato, sia attraverso la mia vita di artista che grazie alla mia attività didattica. Nessuno dei miei allievi divenuti concertisti ha mai sofferto di panico, perché ha imparato da me a far musica, non a esibirsi in pubblico. La paura è conseguenza dell'esibizionismo. Ripeto, chi fa musica non ha alcun timore di suonare in pubblico. E chi ha timore di suonare in pubblico dovrebbe rinunciare a farlo. Ne ha molte buone ragioni. dralig
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